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La famiglia vuota di Colm Tóibín
Personalmente, amo molto le raccolte di racconti. Trovo che siano una forma letteraria potente. Scrivere un ottimo racconto è – per certi versi – molto più complicato che scrivere un ottimo romanzo. Nello spazio di poche pagine si deve riuscire a catturare l’attenzione del lettore, si deve creare un universo capace di esprimere sé stesso senza perdersi e divenire per questo evanescente, o incompleto. Spesso i racconti sono una sorta di polaroid, un momento catturato nella sua immediatezza, avulso da un contesto più ampio, eppure, incredibilmente, questo momento è colmo, completo, non necessita di alcuna spiegazione ulteriore.
I nove racconti che compongono questa raccolta si discostano un po’ da quella che è la mia idea di racconto, nel senso che non sono polaroid ma piccoli romanzi, nei quali il personaggio principale viene colto nell’atto di ricordare il suo passato. Il minimo comune denominatore di questi racconti è – a mio parere – l’allontanamento, la distanza. Da sé stessi, dalle proprie radici, da un amore, dalla famiglia, dal passato. Tutti i protagonisti delle storie di Colm Tóibín, nessuno escluso, ci vengono presentati nel momento del ritorno, sia esso un ritorno fisico, con uomini e donne che giungono a casa dopo una lunga assenza, oppure un ritorno mentale, il ripensare a tutto quello che è stato, che poteva essere, che abbiamo perduto. La nostalgia e il rimpianto, la perdita e la rassegnazione, sono le emozioni preponderanti; avvolgono le storie in una patina di velata malinconia, e ci si sente annichiliti da tutti questi eventi in potenza di accadere. La tematica omosessuale è presente con forza; nella maggior parte dei racconti il protagonista ricorda amanti, amori, figure sempre appartenenti al passato e perdute per scelta o per pigrizia. Tóibín, in alcuni punti, pare quasi voler scioccare il lettore medio, al sicuro nella sua casa ordinaria, nella sua vita oltremodo tranquilla. La sessualità irrompe dalle pagine come uno schiaffo, è quasi sempre un qualcosa di proibito, nascosto, rubato, e vissuto con voracità, con impeto, con una sorta di fame. Ciò che incombe, in fondo, è sempre la stessa cosa: la paura di perdere tutto.
Il mio racconto preferito è “Due donne”, una storia scritta in modo splendido che vede una scenografa di successo tornare nella sua Dublino per le riprese di un film; questo ritorno la costringerà a guardarsi indietro, e ad affrontare – infine – l’ombra del grande amore perduto anni prima. Tóibín è bravo a raccontarci l’animo femminile così come quello maschile; ci conduce attraverso strade in penombra, dove il presente è fatto di nebbia, il passato di immagini sfocate, e il futuro non ha neanche la decenza di farsi vedere. L’autore irlandese scrive bene, ma spesso mi sono sentita lontana dai suoi protagonisti, come se Tóibín stesso volesse tenere le distanze, come se queste storie fossero quadri da osservare da lontano. La mancanza di empatia è ciò che non mi ha permesso di godere appieno di questo libro, che rimane comunque una lettura di buon livello.
Colm Tóibín, “La famiglia vuota”, (ed. or. 2010, trad. Andrea Silvestri) pp. 283, 18,00 euro, Bompiani, 2011.
Voto: 3/5
3.03.2012 5 Commenti Feed Stampa
5 Commenti
CommentaSecondo me, non è affatto vero che scrivere un racconto ottimo è più complicato che scrivere un romanzo ottimo.
Un racconto obbliga lo scrittore a contare gli errori, più ce ne sono, più il racconto perde valore. Un paragrafo insulso può assomigliare ad un autogol nei tempi di recupero.
Ma un romanzo necessita di resistenza da parte dello scrittore, necessita di fiato lungo ed energie in copia. Necessita di continue idee per mantenere la narrazione con meno tempi morti possibili, e obbliga l’autore a ideare una struttura ed una trama che contenga più spazio e più movimento.
Di solito poi un autore di romanzi (specie se di romanzi epici quasi) come fu Dostoevskij o Simenon o Nievo, riesce a scrivere grandi racconti; mentre un novelliere eccellente, per quanto grande come Poe, Landolfi, Carver, ha più difficoltà a darsi alla forma romanzesca.
Poi ovviamente ognuno scrive ciò che gli interessa scrivere nelle forme che predilige per gusto e natura.
Ho pensato molto a come rispondere.
Innanzitutto, ho scritto “per certi versi”. Quindi non è una cosa scontata, né vale per tutti i casi.
Ma può succedere, senza dubbio, che un ottimo racconto sia meglio di un ottimo romanzo. Ed è vero, secondo me, che scrivere un ottimo racconto PUO’ essere più difficile che scrivere un ottimo romanzo.
Ecco una metafora che può funzionare: i 100 metri e la maratona.
I 100 metri possono essere molto più difficili di una maratona. Sono due discipline diverse, che richiedono abilità diverse.
Chiara, l’importante come sempre è la qualità.
Ma voglio aggiungere un pollice a questo assiomello appena espresso: cosa fa un capolavoro se non una grande quantità di qualità?
Poi ovviamente c’è lo stile, ci sono i contenuti ecc, soltanto credo che succeda raramente che un grande racconto possa fronteggiare ad armi pari un grande romanzo.
Un singolo racconto di Poe non può valere mai il Rosso e il nero di Stendhal. O il Pinocchio di Collodi.
Non ti pare?
ciao
Credo che siano questioni assolutamente personali.
Ci sono racconti così belli, così colmi di tutto, in grado di dirti in 50 pagine quello che altri autori non riescono a dirti in 500.
Quantità non è sempre sinonimo di qualità. I due concetti non si equivalgono. Come tu stesso hai scritto, comunque. L’importante è non dare niente per scontato, neppure il fatto che 1000 pagine siano per forza meglio di 10.
Ciao a te!
2/2
“Personali” nel senso che – probabilmente – sta anche alla sensibilità del lettore saper cogliere la bellezza di certi racconti.
Non so se sto andando fuori tema, ma può essere che sia anche il lettore a fare il libro?
Via, meglio che me ne vada a letto! :-)