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L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender
Avete presente com’è quando vi piace uno sconosciuto?
Lo guardate di sottecchi, pronti a cogliere ogni suo gesto, ogni suo parola, ma, cosa più importante di tutte, vi crogiolate a immaginare ogni dettaglio del suo carattere, ogni suo piccolo vezzo. Lo immaginate, ecco il punto: vi piace perché è il frutto della vostra fantasia, e cosa può esserci di meglio?
A me è successa la stessa identica cosa con questo libro: guardavo L’inconfondibile tristezza della torta al limone e mi piaceva molto; mi sentivo attratta dai colori in copertina, così decisi e infantili insieme, ed ero già pronta ad accogliere Aimee Bender nell’olimpo delle mie autrici preferite, a stendere per lei un tappeto rosso di parole che avrei raccolto nei suoi libri.
Purtroppo però la realtà non è stata all’altezza della mia immaginazione e mi ha lasciato con il proverbiale palmo di naso.
Mi aspettavo di leggere un romanzo dolce e frizzante, di quelli che fanno spuntare il sorriso sulle labbra, e invece ho trovato un’idea di base molto interessante: la capacità di assaporare le emozioni di chi cucina il cibo che mangiamo è attribuita a una protagonista a cui non mi sono affezionata nemmeno un po’.
Rose Edelstein si accorge del suo “dono” all’età di 9 anni, ma ce lo racconta a posteriori, quando ormai è un’adolescente, e questa è la prima cosa che mi ha fatto storcere il naso. Come se la Bender avesse deciso di mettere in bocca le sue parole alla Rose più adulta in modo da non farle stonare, da non farle apparire ancor più posticce di quanto non sembrino. Una scelta che mi ha lasciato addosso la sensazione di un ostacolo aggirato, di una sfida mancata.
Potrei dire che si tratta di un romanzo scorrevole, caratterizzato da una narrazione che mi piace definire “soleggiata”, tiepida e incolore come i vetri scaldati dal sole di Los Angeles. Qualcosa di piacevole ma effimero, che non si fissa nella memoria, che se ne va con il vento, come l’involucro colorato di uno snack abbandonato su un muretto.
Il cibo come cartina al tornasole della società : quello che fa la mamma è disgustoso, farcito di bugie e di insoddisfazione, e quello della mensa a scuola ha i suoi alti e bassi; l’unico porto sicuro per Rose è il distributore automatico, dispensatore di cibo industriale, ricco di aromi e conservanti, ma privo di sentimenti. Emblematica quest’immagine del cibo prodotto in serie, così rassicurante nella sua banale prevedibilità , così confortante nella sua artificiosità .
In parole povere ci troviamo di fronte al classico romanzo sulla famiglia americana è anche se con un q.b. di realismo magico, sull’incomunicabilità tra genitori e figli e su quanto sia difficile trovare un punto di incontro, un modo per conoscersi al di là dei propri ruoli familiari. Uno di quelli di cui si può fare benissimo a meno, secondo me. Ce ne sono altri di gran lunga migliori, ecco.
La cosa che più mi ha infastidito e che mi ha fatto venir voglia di lanciare il libro nel camino è stata la sorte del fratello di Rose che, come da copione, è il tipico genio incompreso che sparisce di continuo. Fatto sta che un bel giorno Rose lo sorprende con le gambe di una sedia infilate nei pantaloni, come se fossero due sostegni per le sue di gambe. Ora, io capisco il realismo magico e la visione surreale, ma non si possono inserire elementi bizzarri a caso senza fornire alcuna spiegazione in merito, mi sembra una vera e propria presa in giro!
In un’intervista pubblicata sul magazine della Minimum Fax la Bender risponde così a tal proposito: “alcuni lettori pensano che sembri autistico e altri schizofrenico; io non lo volevo etichettare, volevo che fosse solo se stesso, e i lettori avrebbero potuto decidere di testa loro. Credo che si rifugi dentro i mobili come modo per evadere dalla realtà e fuggire. E che, alla fine, muoia nella sedia“.
Il fratello muore nella sedia, me ne devo fare una ragione.
Ma io proprio non ci riesco e non mi piace nemmeno questo suo modo di fare a scaricabarile, dicendo che devono essere i lettori a immaginare la verità . Ma chi l’ha detta ‘sta fandonia? Io non penso che il compito del lettore sia quello di riempire i buchi che l’autore ha lasciato nella trama!
Questa è stata la triste ciliegina sulla mia torta a limone è ben lievitata, ma insapore: la Bender non è stata capace di fare meglio di così, nemmeno di inventarsi una scusa più convincente.
Aimee Bender, “L’inconfondibile tristezza della torta al limone“, (traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan), Minimum Fax, pp. 332, 16,50 euro, 2011.
Giudizio: 2/5
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6.01.2012 3 Commenti Feed Stampa
3 Commenti
CommentaSecondo me il fratello della protagonista ha solo scelto male, in fin dei conti. Io ad esempio finirò per morire in un libro, con tutta probabilità . Di certo mi è successo spessissimo di viverci.
Capisco che il romanzo della Bender sia deludente; ma da qui a generalizzare che non spetta al lettore integrare il senso di un testo narrativo, dandone un’interpretazione personale… ce ne corre.
Secondo me, interpretare il senso di un testo è una cosa molto diversa dall’immaginare di sana pianta che fine ha fatto uno dei personaggi!
L’atteggiamento della Bender mi ha fatto veramente arrabbiare, mi è sembrato che si trattasse di pigrizia allo stato puro travestita da libertà del lettore. Sono bravi tutti a lasciare pezzi di storia (grandi come un elefante in salotto!) in sospeso giustificandosi col fatto che poi saranno i lettori a trovarci un senso… troppo semplice per i miei gusti.
Ho appena finito di leggere il libro e ho sperato di trovare su internet una spiegazione su cosa succedesse tra Joseph e la sedia perché, anche rileggendo più volte quella scena, non ne venivo a capo. È un elemento assurdo in una storia che invece mi è generalmente piaciuta e sinceramente non ne capisco il senso. Oltretutto, quando lo ricoverano in ospedale, non trovano niente di strano?!