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Lettera aperta del noto intellettuale Gino Lepido Freschetti
di tamas
Gentile direttore, gentili adepti di Cabaret Bisanzio,
mi permetto di prendere penna e calamaio per vergare una lettera a voi che considero tra gli ultimi illuminati al corrente di questo mondo al tramonto che è la libertà culturale in Italia. Mi sembrate dotati della lucidità necessaria a discernere il grano dal loglio, e scelgo dunque voi non per difendermi dalle consuete accuse di tradimento, perché non ho tradito nessuno, bensì per chiarire e spiegarmi. Mi sento inoltre particolarmente vicino a voi bizantini, in quanto tali sospesi tra due mondi; come lo sono stato io al tempo lontano della mia adolescenza e poi gioventù, lacerato tra l’appartenenza al materiale mondo occidentale fatto di potenti detersivi e sorrisi smacchiati e l’attrazione per quel freddo Oriente d’acciaio, all’epoca comunista, dietro cui tuttavia già intravedevo confusamente il persistere della nuvola di polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli tartari.
Scrivo a voi per replicare a coloro i quali mi accusano di aver perduto la testa e la bussola, una volta tramontato il sole d’Oriente in cui tanto avevamo creduto, e di aver rinnegato tutta la mia storia e la mia formazione progressista indulgendo a suggestioni mistiche e tornando infine da penitente nel grembo di Santa Madre Chiesa. Ma io nego di aver rinnegato qualcosa: ho solo constatato che, finita quell’illusione, è rimasto il polverone tartaro, sono rimasti gli zoccoli dei cavalli.
Forse la risposta a tutto era nei cavalli, mi dico oggi che sono tornato a vivere a Poggiorogna, il paesino in cui da millanta secoli i miei antenati coltivano rape di scarsissima digeribilità e allevano puledri dalle nari frementi; forse, dunque, almeno ai cavalli sono rimasto assolutamente coerente.
Gentile direttore, so che lei starà ora sorridendo, come sorrideranno i suoi lettori, nel leggere di questo squinternato che si condanna ad un volontario confino ritirandosi ai margini montani della civiltà; ma io mi alzo la mattina al sorgere virile del sole, mungo i topi e poi mi siedo su una pietra, bevendo il bianco siero dei sorcidi, ad osservare l’amplissimo orizzonte delle mie rupi: da un lato c’è Erpice di Sopra, ancora vergine delle ferite che la modernità ha inferto a Erpice di Sotto, dall’altro si ergono le torri campanarie di Montecane Glassato, dove generazioni e generazioni di montanari hanno ricevuto a colpi di maglio il crisma della cresima. Infine, sullo sfondo, rosseggiano le fiamme da cui è costantemente avvolta Gnogno, i cui abitanti – rispettosi delle costumanze dei loro avi e affatto sordi ai richiami bifidi dei paladini del nuovo – cercano di soffocarle con pece e copertoni. Per questo motivo, per l’affetto genetico che mi lega a queste terre e queste costumi, ritornare ad esse e riscoprire la fede dei padri è stato un tutt’uno. È stato semplice e naturale abbandonare l’artificiosità, anche quella promiscua e fintamente liberata, e tornare ad un mondo in cui suonano le campane, gli animali si pavoneggiano nei loro magnifici mantelli o fanno a lotta secondo antichissimi rituali, mentre le loro femmine mangiano erba e partoriscono cuccioli nel fango. Che è poi ciò che dovrebbero fare le femmine.
Inoltre, mi pare semplicemente ridicolo e fuori dal mondo che sia io il confinato, io che godo di questo panorama e di questa libertà; prigionieri sono semmai coloro che replicano, quando il tempo della loro rappresentazione è abbondantemente scaduto, la stanca prassi di un’ideologia che ha perduto i propri principi. Parlo della sinistra che mi ha fatto da madre e che non rinnego assolutamente, non potendo rinnegare mia madre, anzi, già soddisfatto di averla fatto soffrire (come prescrivono d’altronde i Libri sacri) venendo al mondo in un tripudio di sangue, urla, ululati e placenta. Ma oggi non ho più bisogno di madri e non ne ricerco più; oggi voglio nonne, zie, voglio bestie sudate e maleolenti da accudire, voglio donne incinte di malfattori che portano a termine con femminile rassegnazione il loro compito, voglio cani che mangiano formaggio, voglio seggiole ruvide, rose bulgare e tavole da surf.
Capisce? Non mi pare di chiedere molto.
Il mondo ristretto della città è il vero carcere, prima di tutto mentale, perché è la vulgata illuminista a reputare il mondo urbano distinto e superiore rispetto a quello delle campagne e più ancora dei monti. Invito invece voi tutti a rifare a ritroso la strada che probabilmente i nostri nonni o padri (delle madri me ne sbatto il cazzo) hanno compiuto: risalite le erte fino ai paesetti di montagna dai campi scarsi e improduttivi, rifatevi quassù una vita reale e sostanziale. Se ne volete un assaggio, venite a trovarmi a Poggiorogna: sono solo dodici ore a dorso di bulgaro, e c’è un bicchiere d’aceto che vi attende tutti.
Quassù scoprirete che la serenità è sapere che le vostre donne e i vostri cavalli sono vicino a voi, nella grande casa dai muri spessi, e che ancora più vicino a voi c’è il vostro fidato scudiscio, con il quale saprete educarli entrambi al bene e alla disciplina.
Con stima,
Gino Lepido Freschetti
27.05.2009 4 Commenti Feed Stampa
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CommentaCaro Freschetti,
vorrà scusarmi se le rispondo io, ma in questi giorni il direttore è impegnato con una questione di massima importanza (è indeciso se mettere o meno gli adsense porno) (ma io penso che li mettiamo) e ha detto che non aveva voglia di rotture di coglioni. Ho letto con molta attenzione la sua missiva, traendone non pochi spunti di riflessione. Devo dirle che non su tutto sono d’accordo: a me, ad esempio, i cavalli stanno antipatici (mentre trovo che l’antica pratica della mungitura del ratto, conosciuta anche sulle nostre colline e adesso colpevolmente dimenticata con la risibile motivazione che “fa schifo al cazzo”, sia effettivamente da riportare in auge, specie in questi tempi di crisi). Trovo i cavalli inutilmente grossi, li considero i tronisti dei quadrupedi, gente che ha puntato tutto sul fisico, tralasciando l’aspetto spirituale. Ebbene, io dico ai cavalli: ricordatevi che quelli grossi fanno la botta più grossa! Figli di puttana. Ciò non toglie, tuttavia, che sottoforma di bistecca abbiano anch’essi il loro bel perché.
Ma non è per parlare di equini che ho preso carta e penna per risponderle: in verità l’ho fatto per discutere della sua scelta. Lei non deve sentirsi obbligato a produrre una qualche giustificazione per quello che lei stesso ha definito, in un altro luogo, “cazzi mia”. Ognuno fa le proprie scelte, pagandone il prezzo: c’è chi mette su internet foto di gattini e chi stupra la propria figlia per anni, tenendola chiusa in cantina e mettendola incinta tre o quattro volte. Il mondo è bello perché è vario. E chi sono io per giudicare, per dire cosa è giusto e cosa è sbagliato? Può qualcuno arrogarsi il diritto di farlo? No, maremma cane, non può.
So che le hanno dato del revisionista, del rinnegato; so che qualcuno, uno di quelli che appare quasi quotidianamente in televisione, sempre agghingato all’ultima moda anarchica, le ha addirittura dato del “paraculo”. Non mi stupisco: è il fare tipico di certi massimalisti, di persone oramai totalmente slegate da qualsivoglia addentellato culturale con la cosa del coso, lì, ci siamo capiti. Io la esorto, caro Freschetti, a non curarsi delle parole vomitate da certi scribacchini prezzolati. Continui così, col suo coraggio riformista, col suo riscoprire i i veri valori della vita: la campagna, il cielo terso, la Gazzetta della sport. Non si curi di chi le dà del venduto, del voltagabbana, dello stronzo rotto in culo pezzo di merda infame, o se ne curi fino ad un certo punto. E le rispondo: no, lei non chiede molto, specie per la faccenda delle seggiole ruvide. Che ci vuole a fare le seggiole ruvide? Anche il falegname più cane, voglio dire. Basta impagliarle con la saggina, per dirne una. Ma insomma, continui a godersi la sua riscoperta, si bei della presenza dei suoi amici: Bondi, Cicchitto, Adornato. Ha detto Pansa che se trova un secondo viene anche lui. E mi saluti gli abitanti di Montecane, ché io ricordo ancora con piacere l’ultima volta che sono stato lì, che forai la posteriore sinistra.
Poiché, pur apprezzando sinceramente Cabaret Bisanzio, sul suo blog passo più spesso, sarebbe carino se segnalasse le volte in cui posta qui, in modo che io, ed altri, si possa accorrere.
karo cadd, ho capito il suo messaggio. provvederò
kadd, veda di iscriversi ai nostri feed e lasci stare quel tamas lì.