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Considera l’aragosta
di Blicero
(RIP, 1962-2008)
Nell’immaginario collettivo, il nerd è l’individuo foderato di strati adiposi in eccesso, il volto tempestato dall’acne (anche a quarant’anni), il vestiario non esattamente di haute couture, incatenato 24/7 al computer, risucchiato da Wow/MMORPG vari. In una certa misura, lo stereotipo corrisponde al vero. Ma il livello superiore del nerdismo è racchiuso in un’altra definizione:
A person who gains pleasure from amassing large quantities of knowledge about subjects often too detailed or complicated for most other people to be bothered with. […] Non-nerds are often scared of nerds, due to their detailed knowledge, and therefore seemingly high levels of intelligence – and subsequently denegrate them as much as possible as often as possible.1
David Foster Wallace è sicuramente un nerd; probabilmente, in ambito letterario, ne è il Principe. Capelli lunghi, bizzarre bandane a circondargli sovente la fronte, occhiali d’ordinanza, cervello finissimo, curiosità intellettuale sconfinata: in Considera l’Aragosta2 non c’è argomento, dal linguaggio alle aragoste, da Dostojevskj a Updike, dalle primarie repubblicane ai talk show radiofonici reazionari, che non sia sviscerato nella sua interezza, che non sia pedinato sino al più apparentemente trascurabile particolare.
Nonostante DFW batta ogni possibile sentiero, ogni remota diramazione che punta all’ampliamento culturale dell’autore, del lettore e della stessa materia trattata (spesso e volentieri mediante le note, le quali sono laboriose e lunghe disgressioni piuttosto che tradizionali puntualizzazioni), ecco, questo non sembra essere mai abbastanza. Così come sembra addirittura ristretta la gamma delle tematiche affrontate, poichè, incontrata per la prima volta la mente di Wallace, è davvero difficile non scalpitare per conoscere la sua opinione su qualsiasi ambito dello scibile umano.
Considera lo stile
L’indubbio punto di forza dello scrittore americano è lo stile: finemente cesellato, erudito, complesso e denso, certo, ma che non lascia mai trasparire la benchè minima pretesa di superiorità intellettuale. All’interno della cifra stilistica wallaciana domina sicuramente l’ironia, che non è lo pseudo-cabaret inventato da Zelig e da altri insulsi programmi “satirici”, ma è un modo di esprimersi particolarmente complesso. In DFW l’ironia è intesa principalmente come distacco postmoderno3 di matrice prettamente pynchoniana; una autoimposta distanza da “profonde convinzioni” e da “disperate domande” fatta di “citazioni intertestuali” e “accostamenti incongruenti”, come dice lo stesso DFW nello splendido saggio sul Dostoevskij di Joseph Frank – più che una recensione, una lucida riflessione, autoironica appunto, sulla via imboccata dalla letteratura postmoderna.
Wallace, d’altronde, non perde mai l’opportunità di ironizzare su situazioni che possono sembrare assurde, come ad esempio fa nel reportage sugli “Oscar” del porno (AVN Awards) – ovverosia l’apocalisse che ha assunto le sembianze di un cocktail party. Tuttavia, non appena si intravede uno spiraglio di semiseriosità, l’autore riesce ad ergersi su vette letterarie assolute. E così, nell’esilarante saggio “Il figlio grosso e rosso”, si parte da un ispettore di polizia di Los Angeles che trova i porno hardcore commoventi4 e si arriva a confrontare la finzione tra recitazione “canonica” e recitazione “pornografica”: “Tutta la faccia dell’attore porno cambia mentre la coscienza […] o l’inespressività convulsa […] cede il passo a un’autentica gioia erotica per quello che sta succedendo; […] l’effetto sullo spettatore è elettrico.”
Considera l’interesse
Non avrei mai pensato di trovare spunti comici in Kafka, eppure, a quanto pare, le opere del genio praghese ne sono gremite.
Difficilmente avrei trovato interessante il sistema nervoso delle aragoste ed il loro metodo di cottura (esecuzione?); raramente avevo messo in discussione5 l’eticità di bollire animali vivi in pentola; quasi sempre avevo liquidato con noncuranza quello straziante stridio prodotto dalla corazza (forse) del prelibato alimento.
Mai e poi mai mi sarei posto i problemi che sorgono nel conflittuale rapporto tra autorità, politica e lingua inglese; mai avrei pensato di trovare nello stesso libro sia Wittgenstein che Tracy Austin; men che meno avrei immaginato di appassionarmi all’acerrima disputa tra i Prescrittivisti e i Descrittivisti.
Eppure, alla fine, ho fatto tutte queste cose. Non c’è argomento inutile, non c’è questione che non debba essere affrontata, per quanto astrusa e lontana questa possa, prima facie, risultare. L’insieme necessita di approfondimento – spesso le cose più effimere sono il prodromo di riflessioni pregnanti e significative. DFW, del resto, riuscirebbe a rendere interessante persino la raccolta di tutti i numeri de Il Riformista, dell’Avanti e de Il Foglio messi insieme, frullati fra loro e revisionati da Scalfari nel consueto stile trombonesco-ciceroniano.
Considera Simba
Il saggio “Forza, Simba” merita un’analisi più attenta, e non solo perchè è il migliore del lotto. Scritto per Rolling Stone e ripubblicato in forma digitale (senza tagli editoriali, ovviamente), è la cronaca di una settimana passata a stretto contatto con la carovana elettorale A.D. 2000 del senatore John McCain (si, l’attuale candidato alla presidenza) e con tutta la costellazione massmediatica che gravita attorno allo Straight Talk Express. E’ un esempio di “giornalismo politico”6 – e, si badi bene, DFW è l’antitesi del paludato notista politico medio – talmente limpido e cristallino che andrebbe fatto tatuare sulla pelle di ogni giornalista. Specialmente su quella dei nostri.
Wallace parte da questa premessa: la quasi totalità del dibattito politico è completamente inquinato dalla politica stessa7, nel senso di essere totalmente ideologicizzato, “moralmente” assolutistico (Bianco/Nero, Giusto/Sbagliato, Buono/Cattivo), scarnificato ai minimi termini. La questione principale, a questo punto, è relativamente semplice: di quale politico ci possiamo fidare? McCain è genuino o è solo un politicante arrivista? E’ un imprenditore che ha trovato la sua nicchia di mercato da riempire o è un vero leader?
DFW è al contempo affascinato dalla figura umana di McCain ed inquietato dalle sue idee politiche. L’autorità morale di McCain deriva principalmente dal suo passato di eroe di guerra in Vietnam. Ma è difficile parlare di sincerità/autenticità/attendibilità quando si è circondati di spin doctor, quando l’oscillazione perenne tra marketing e politica esplode in contraddizioni che effettivamente possono minare, con estrema facilità, l’autorità di questo o di quel candidato. Tutto dipende dal “grado di tolleranza alle zone grigie”; quel grigio che, in fondo, è la tonalità naturale della politica, la sua vera essenza.
Nella mente, quella scatola a Hoa Lo si trasforma in una sorta di speciale camerino con una stella sulla porta, il luogo privato dietro il palco dove uno immagina che ancora viva “il vero John McCain”. Ma il paradosso è che la scatola che rende McCain “reale” è, per definizione, chiusa. Impenetrabile. Nessuno può entrare né uscire. […] Un “ritratto” di John McCain non sarà mai altro che questo: un unica faccia, esterna, scomposta e diffratta da così tante lenti che alla fine di uomini da vedere ce n’è ben più di uno. […] Il paradosso finale è che il fatto che lui sia davvero “reale” dipende meno da ciò che c’è nel suo cuore da ciò che c’è nel vostro. Cercate di rimanere svegli.
Lo faremo.
- Lemma preso da Urban Dictionary, la bibbia dello slang anglosassone. [torna su]
- Raccolta di saggi; dieci, per la precisione. In rete se ne possono trovare alcuni, in lingua originale: “Tense Present“, “Certainly the End of Something or Other, One Would Sort of Have to Think“, “Host“. [torna su]
- Si, lo sappiamo, la parola “postmoderno” è estremamente abusata, vuol dire tutto e niente. Ma è la parola da cui non possiamo distaccarci, purtroppo o perfortuna; perlomeno nell’analizzare gli scritti di DFW, ai quali forse il termine potrebbe essere applicato senza far alzare gli occhi al cielo. [torna su]
- Questo, ovviamente, nel momento in cui le facce degli attori tradiscono l’autentica eccitazione orgasmica: “Nei film veri è fatto tutto apposta. Forse quello che mi piace dei porno è che succede per sbaglio.” [torna su]
- DFW arriva a farlo, nel saggio che da il titolo alla raccolta e che racconta il Festival dell’Aragosta nel Maine, sulla rinomata rivista culinaria Gourmet! [torna su]
- Wallace ha un illustre predecessore in questo campo (campaign journalism): Hunter S. Thompson, il leggendario artefice del Gonzo journalism. L’autore di Fear and Loathing in Las Vegas seguì infatti, sempre per Rolling Stone, l’intera campagna presidenziale del 1972. [torna su]
- Il riferimento è agli Stati Uniti – se DFW analizzasse la situazione italiana, probabilmente si butterebbe giù da un ponte o si procurerebbe emocut seriali. [torna su]
14.09.2008 4 Commenti Feed Stampa
4 Commenti
CommentaChe pezza. Ho amato moltissimo i suoi libri. Non ci posso credere, con tutta quell’ironia, quell’intelligenza, quell’acume, con tutto quel genio che si ritrovava…
E’ veramente una bruttissima notizia, è come se si fosse ammazzato un amico, o qualcosa del genere. Sono veramente scosso e amareggiato e anche un po’ incazzato per come riesce a essere orribile questo mondo.
“Se ho un vero nemico, un patriarca contro cui effettuare il mio parricidio, sono probabilmente Barth e Coover e Burroughs, e perfino Nabokov e Pynchon. […] l’assorbimento della loro estetica nella cultura consumistica americana ha avuto conseguenze terribili per gli scrittori e per tutti gli altri. […] L’ironia e il cinismo erano quel che ci voleva contro l’ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. La cosa grandiosa dell’ironia è che seziona ogni cosa e poi la guarda dall’alto per mostrarne le tare, le ipocrisie, le scopiazzature […] Il sarcasmo, la parodia, l’assurdo e l’ironia sono modi efficaci di smascherare la realtà e mostrarne la sgradevolezza, ma il problema è: una volta che abbiamo fatto saltare le regole dell’arte, e dopo che l’ironia ha svelato e diagnosticato le brutture del reale, a quel punto che facciamo? L’ironia è utile per sfatare le illusioni, ma in America le illusioni le abbiamo già sfatate e ri-sfatate […] L’ironia e il cinismo postmoderni sono ormai fini a se stessi, sono il parametro della sofisticatezza hip e dell’abilità letteraria. Pochi artisti osano parlare di altri modi di porsi per risolvere ciò che non va, perché temono di sembrare sentimentali e ingenui agli occhi degli ironisti stanchi di tutto. L’ironia è stata liberatoria, oggi è schiavizzante. In un saggio ho letto una bella frase, diceva che l’ironia è il canto dell’uccellino che ha imparato ad amare la propria gabbia. Non c’è dubbio che i primi postmodernisti e ironisti e anarchici e assurdisti abbiano prodotto cose egregie, ma il guizzo non si passa da una generazione all’altra come il testimone della staffetta, il guizzo è personale, idiosincratico […] Dai giorni di gloria del postmoderno abbiamo ereditato sarcasmo, cinismo, una posa annoiata maniaco-depressiva, sospetto nei confronti di ogni autorità, sospetto di ogni limite posto alle nostre azioni […] Devi capire che questa roba ha permeato la nostra cultura, è diventata il nostro linguaggio, ci siamo dentro a tal punto da non capire più che è solo una prospettiva, una tra le tante possibili. L’ironia postmoderna è diventata il nostro ambiente.”
DFW, 1993
David Foster Wallace evidentemente assomigliava ai suoi personaggi, creature che la natura e l’educazione avevano dotato di quantità importanti di disincanto ed ironia ma nello stesso tempo alla ricerca disperata di qualcosa che andasse oltre, di una punta di lancia fatta di sensazioni, sentimenti ed empatia in grado di sfondare quella barriera tanto trasparente quanto inscalfibile che separa (quasi) inevitabilmente quel genere di persona dalle altre vasche dell’acquario, quelle in cui nuotano tutti gli altri. Come uno spettatore esperto che al cinema sa identificare i movimenti di macchina, giudica la fotografia, sfotte l’ingenuità interpretativa, storce la faccia davanti alla svolta “telefonata” o scova il dettaglio dell’inquadratura che rivela la mano del genio, tutto con la spietata consapevolezza che si tratti indubbiamente di un film e, insieme, col desiderio bruciante e insanabile di potersi trovare anche lui coinvolto nelle vicende che si vede srotolare davanti.
Anche il coetaneo Douglas Coupland mette in scena queste figure condannate a un disagio perenne ma la loro risposta è sottilmente diversa. Messi davanti a un quesito come “felicità o tranquillità?”, le creature di Wallace opterebbero senz’altro per la prima, quelle di Coupland, più che probabilmente, per la seconda.
Viene da pensare che Wallace, fuori dalla schermata suo word-processor, non abbia mai trovato quella punta di lancia utile a sfondare il vetro, che non sia riuscito a liberarsi delle sovrastrutture ironico-culturali che la generazione precedente aveva lasciato in eredità. Rileggendo quelle righe ho l’impressione che il peccato originale addebitato ai padri fondatori sia, in fondo, la messa al bando dell’innocenza (per non dire la presa d’atto della sua impossibilità spinta fino al punto di spostare il problema stesso nel campo dell’irrilevanza).
Senza voler ridurre o banalizzare (non credo che qualcuno possa arrivare ad impiccarsi perché si sente tradito da Pynchon, evidentemente c’erano altri e ben più gravi problemi), quello con cui probabilmente Wallace non è mai riuscito a fare i conti è il semplice fatto che dall’attimo in cui “l’ironia ha svelato e diagnosticato le brutture del reale”, quello in cui sollevi per la prima volta il sipario e vedi le macchine di scena, non c’è ritorno.
“La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme.“
In un periodo in cui sono schifata un po’ da tutto, sono delusa e disillusa, mi aggrappo all’arte e a chi la fa per trovare pace.
Per quanto non fossi una grande amante di Wallace considero quindi una vera tragedia che un artista geniale si tolga la vita mentre tutto lo squallore vive e si moltiplica.
luca pettinelli grazie. una sintesi preziosa, interessante e commovente.