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Percorsi
di Elisa Bolchi
Non credo mi interessino le storie. Non mi hanno mai davvero interessata. Mi interessano, invece, le persone, in quanto percorsi del pensiero e della mente. Mi piace scrutare i vorticosi e intricati percorsi del cervello e delle sinapsi che accompagnano le emozioni e le sensazioni. Siamo circondati da gente bizzarra, è sufficiente alzare gli occhi. Ma cosa ci interessa: loro o le loro storie? Siamo più attratti dall’idea di osservarli silenziosamente, creandoci dei fantocci mentali che fanno e dicono ciò che noi immaginiamo, che non dall’ipotesi di poter scambiare qualche parola con loro. Addirittura, se qualcuno in metropolitana, sul treno, sul tram, ci rivolge la parola, pensiamo che sia uno scocciatore deciso ad importunarci. E magari lo abbiamo scrutato fino a pochi secondi prima, abbiamo osservato i suoi calzini, neri, con scarpe e pantaloni marroni, e tratto le nostre conclusioni. Abbiamo sbirciato il suo quotidiano per cercare di intuirne la testata e capire le sue inclinazioni politiche, abbiamo osservato la cravatta spiegazzata e ci siamo chiesti che giornata dovesse aver avuto; ma se lui ci avesse rivolto la parola, se avesse dimostrato di essere effettivamente disponibile a narrarci la sua storia, o una parte di essa, soddisfacendo così le nostre curiosità, allora no, avremmo risposto a monosillabi e avremmo tentato di cambiare posto con una scusa.
Forse tutto ciò ha in qualche modo a che fare con la forma. La forma, che io amo tanto e che sembro preferire alla sostanza. La forma più del contenuto, sì, senz’altro. Perché l’arte non è la vita e se nella vita ciò che conta non è affatto la forma, bene, senza la forma l’arte non esiste. Chiariamoci, non parlo di esseri umani, di anime. Parlo di osservazione. L’osservazione attenta, minuziosa, della forma, credo possa portare alla verità. La sostanza è farcitura. Ascoltare un racconto di vita ci dice poco di quella vita. La scelta dei colori, il movimento delle mani, al contrario, ci dicono molto, sono sinceri, perché involontari. Possiamo raccontare di essere persone riservate, o timide, ma il nostro tono di voce, la vibrazione del labbro superiore, i gesti delle nostre mani soltanto riveleranno chi siamo davvero. Lo specchio ci restituisce un’immagine deformata, e noi stessi vi ricerchiamo l’immagine che desideriamo dare. Ecco perché non è lo specchio, non è la voce che racconta che dobbiamo osservare. Dobbiamo osservare l’uomo, l’essere umano, indagare il suo intimo, se vogliamo arrivare al vero.
Mi interessa, ad esempio, osservare la persona che aspetta la metropolitana sulla banchina di fronte alla mia. È una donna, capelli biondi (schiariti, ma il suo colore non deve essere molto più scuro), con delle ciabattine intonate alla camicetta e una gonna bianca. Trascina un trolley nero e si dà un’ultima sistemata alla camicetta prima di salire sul vagone. Osservo tutto ciò e mi interessa. Ma allora perché non mi domando da dove arrivi e dove stia andando? Perché non mi chiedo se arriva o parte? È perché non mi interessa nulla di lei? No, invece, mi interessa moltissimo. Mi interessa chiedermi cosa pensa di sé, cosa pensa di sé quando si guarda allo specchio, quando si trucca (si trucca? da qui non lo posso vedere) o quando si spoglia. Credo sappia di essere un po’ soprappeso ma non credo si dispiaccia. In fondo indossa una gonna bianca almeno taglia 46 e questo significa stare bene con se stessi. Forse è per questo che ha un’aria serena, e che l’ho notata, fra tutti. Credo si piaccia perché trova conferma della sua bellezza negli occhi di qualcuno. Purtroppo per le donne è spesso così e questo mi porta a pensare che sia così anche per lei. Gli occhi di un uomo, o di una cara amica, che l’hanno guardata restituendole un’immagine solare, gioiosa, amata. Sembra una persona amata, infatti, non sola, ma nemmeno dipendente da qualcuno. Non ha paura, non stringe la borsa sotto il gomito, non tiene il suo piccolo trolley attaccato alle caviglie. È tranquilla, come se pensasse che nulla di grave le possa davvero accadere. È così che ci sentiamo quando pensiamo di essere amati, crediamo che il bene crei una barriera capace di allontanare il male. La barriera è la nostra, in realtà, viviamo tutto più serenamente e questo non ci fa considerare tali le piccole scocciature. Provate a rompervi un tacco dopo aver litigato con qualcuno o a rompervelo dopo aver lasciato la casa del vostro uomo con ancora il suo profumo nei capelli. Einstein ne ha parlato a lungo di questa cosa che, semplificando, chiamiamo relatività.
Siamo noi a creare la nostra sorte, spesso, e la sorte di questa donna davanti a me, oggi, promette molto bene. Se la sua gonna bianca dovesse sporcarsi ne riderebbe, credo. O forse mi sbaglio, sta partendo, in realtà; si sta recando a un appuntamento galante o a una rimpatriata con vecchie amiche e la gioia che sembra pervaderla è una gioia solo pregustata. Non fu Lessing (non Doris, ma Gotthold) a dire: “l’attesa del piacere è essa stessa piacere”? A volte un piacere superiore di quello vero, come dice bene Leopardi nel Sabato del villaggio. Sì, le mie letture mi portano a pensare che forse il suo appuntamento è lì che l’aspetta, ecco perché tanta cura nell’abbinare scarpe e camicia, ecco perché la scelta di una gonna bianca e luminosa. E così, se quella gonna dovesse macchiarsi, lei non ne riderebbe, ne sarebbe un po’ scocciata, penserebbe che è una vera sfortuna che proprio oggi, proprio ora…
Ma è di buon umore: no, una macchia non basterebbe a cancellare quell’aria serena dal suo viso. Avrebbe un’espressione scocciata per qualche istante ma poi la sua mente tornerebbe dove è ora e lei continuerebbe a far finta di aspettare di veder arrivare il treno mentre sente poco di quanto accade attorno a sé.
Sarà altrettanto soddisfatta questa sera, quando si sbottonerà la camicetta e si sfilerà la gonna? Forse le faranno un po’ male i piedi per quel poco tacco delle ciabattine infradito, forse non se ne accorgerà, perché qualcun altro le avrà slacciato la camicetta e sfilato la gonna, o forse penserà che dopo tutto questo aspettare, la giornata è già passata e lei quasi non se n’è accorta.
Ecco a cosa porta la sostanza: a vivere nell’attesa dei fatti, delle azioni, in cerca di una trama. La forma, invece, indagata in ogni sua mossa, in ogni sua molecola, ci fa cogliere gli istanti.
Oggi l’acqua ha iniziato a cadermi addosso dal cielo. Acqua dal cielo. E la chiamiamo pioggia. Semplicistico, non è vero? Uno dei quattro elementi ci viene incontro e noi apriamo l’ombrello. Io stessa l’ho aperto non appena ho sentito le gocce, timore di sgualcire abiti e chissà cos’altro. Da ragazza non mi capitava. Di aprire l’ombrello, intendo. Mi bagnavo e basta. Niente di grave. Ma ora che faccio davvero parte della società adulta non si può non aprire l’ombrello. Bisogna seguire il percorso corretto, tacere nei luoghi pubblici, non parlare agli sconosciuti, proteggersi dalla pioggia, arrivare in orario. Mi domando, allora, in mezzo a questi percorsi prestabiliti, quante storie diverse si possono trovare? Quanti fatti, episodi differenti? Di contro, quanti modi per vivere la stessa esperienza esistono? Milioni. Milioni di percorsi mentali diversi, personali, affascinanti, che si accavallano e sovrappongono e si scambiano intersecandosi. Quella ragazza di fronte a me, ad esempio, sta leggendo un libro che ho già letto. Chissà cosa ne pensa. Non mi interessa sapere di lei, se ha fratelli, sorelle, se studia o lavora, vorrei invece sapere cosa pensa di quel libro, se simpatizza col protagonista o invece con la moglie di lui. Questo libro unisce due percorsi, i nostri, ma io prendo il treno nella direzione opposta e non ci parleremo mai, con tutta probabilità non la vedrò mai più (lei non mi avrà mai visto, intenta nella lettura). La sua mente, però, instradata tramite le parole di uno scrittore su di un cammino che ho percorso anch’io e che ci accomuna, continuerà e arriverà in un zone da me già esplorate. Lì i nostri percorsi s’intersecheranno e non lo sapremo mai.
Nessun fatto, in questa esperienza, niente da descrivere, da raccontare, ma tanto su cui riflettere, tanta strada percorsa col pensiero, così tanta che sono già nel mio ingresso, mi tolgo il cappotto e mi sto ancora domandando “Il finale la stupirà?”
21.04.2008 16 Commenti Feed Stampa
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CommentaQuando si pensa non di dovrebbe mai parlare. Perché quando si parla non si pensa più. Questo mi verrebbe da dire. E, poi, per dirla tutta, mi viene da dire che raccontare è meglio di pensare.
Ah, ti ho letto con Sketches di Daniel Lanois in sottofondo, come colonna sonora intendo. Perché anche quella è importante, credo.
giovanotto,
io l’ho letta con in sottofondo “Serenata d’acciaio” del maestro Rosauro Guidetti; beh, che devo dirle, dopo qualche minuto non ho retto più, e ho dovuto imporre a Rosalia Incoronata una sessione di “doppio misto”, dove tralascio il senso che il simpatico scambio tennistico assume qui a Palazzo Stacchia. Vergonia!
cordialità
cav. Stacchia
Imprevidente Stacchia,
mi urge richiamarla: non irrida le svettanti cime romantiche del La Rocca, tempi maturi sono codesti – avendo soverchiato il nichilismo comunista – per un guadagno del sentimento. E ne approfitto per trarre vantaggio e beneficio da codesto certame, e adunque delineo i dettagli di quanto andrò esponendo: l’onorificenza da lei colpevolmente propalata con tanta sicumera ai suoi incolpevoli lettori ha le sembianze di una impostura, debitrice della tendenza alla menzogna che più che fascista pare comunista. Non crediamo sia provvida ventura la sua, né ancora siano opportuni gli impropri analogismi che lei solletica con l’unico Cavaliere di questo Paese. Che lei facesse a meno di tanto armamentario sarebbe auspicabile, per rispetto non di noi ma di quel ben altro Cavaliere, quello sì amante della prerogative della nostra Terra. Le rammendo l’ombra della palma, che si sposta sempre e sempre di più. Che farebbe lei dentro d’essa, privato del ristoro del suo a noi – gente che lavora, gente d’impresa e autonomie del sud e del nord- inutile sole? Adunque non la faccia ancora allungare, quest’ombra, ché le sue chiacchiere fritte avrebbero il senso di un concime – per noi sì fertile.
Abitare il corpo e lasciare cadere tutte le trame delle storie che narriamo e con le quali ci rinfranchiamo illudendoci di avere un io. Abitare il proprio e guardare come abitano i corpi le persone che avviciniamo, come usano le cose, cosa comunicano senza le parole. Osservare consapevoli, sapendo dell’intersecarsi di tanti punti di vista differenti , di contenuti differenti, obliqui, uguali, diversi, somiglianti. Il tutto condensato in questo bel – come si potrebbe definire- fermo immagine di vita in rincorsa. Mi pareva troppo lungo all’inizio, ma sono arrivata alla pioggia e al finale sentendomi bagnata, e anche stupita.
Che bello Francesca, grazie!
Sì, un po’ lungo per il web, nato su carta infatti.
Grazie per la lettura, in ogni caso.
Nicolò, mi stai dicendo che dovrei pensare prima di scrivere…?
:-)
No, tutt’altro: mi è piaciuto il tuo testo. Mi riferivo a questo passaggio del tuo testo: “se lui ci avesse rivolto la parola, se avesse dimostrato di essere effettivamente disponibile a narrarci la sua storia, o una parte di essa, soddisfacendo così le nostre curiosità, allora no, avremmo risposto a monosillabi e avremmo tentato di cambiare posto con una scusa”. Condivido quanto hai scritto. Spesso quando sento parlare qualcuno mi sembra che impoverisca l’idea che mi ero fatto di lui. Non a caso preferisco la scrittura. Per dire: le presentazioni dei libri sono delle cose noiosissime.
“Forse tutto ciò ha in qualche modo a che fare con la forma. La forma, che io amo tanto e che sembro preferire alla sostanza. La forma più del contenuto, sì, senz’altro. Perché l’arte non è la vita e se nella vita ciò che conta non è affatto la forma, bene, senza la forma l’arte non esiste.”
Tutto sacrosantamente vero tranne “nella vita ciò che conta non è affatto la forma”. Nella vita la forma conta eccome, anzi è quasi tutto. Siamo ciò che facciamo, Elisa.
Prendi dieci bambini e dagli un pallone da calciare: vedrai dieci modi diversi di farlo. Non esiste un “calciare il pallone” astratto, esiste solo quel calcio a quel pallone in quel momento, sintesi perfetta di forma e sostanza.
“L’osservazione attenta, minuziosa, della forma, credo possa portare alla verità”
Personalmente quando devo pronunciare la parola “verità” indosso dei guanti da operaio siderurgico e uso una pinza molto lunga. Ma forse è un problema solo mio e dei miei studi filosofici.
Non che non ci creda, intendiamoci: verità e realtà coincidono e non potrebbe essere altrimenti e il fatto che la nostra esperienza non ne dia conto non significa nulla tant’è che gli elettroni giravano vorticosamente intorno ai nuclei degli atomi anche prima di essere scoperti, ma quando si parla di persone le cose possono cambiare drammaticamente. Non si tratta più di scoperta ma, almeno in massima parte, di invenzione e il concetto stesso di verità si allontana all’orizzonte fino a diventare invisibile. La verità su di me? Sto battendo su dei tasti, ho degli occhiali in faccia, indosso una camicia blu, etc. Stop, finisce lì. Il resto è destinato a rimanere in un limbo dal quale non c’è uscita, anche se non certo per cattiva volontà. La verità delle persone è semplicemente incomunicabile, tutto qui. In sostanza “nessuno conosce mai nessuno” come Ellis fa dire mirabilmente a Lauren ne “Le regole dell’attrazione”. Non è né triste né allegro, è semplicemente così.
Post Scriptum:
per questi motivi forse l’arte è molto più vicina alla verità di quanto si pensi ed è lì che risiede il suo mistero. C’è più Picasso nei “Flauti di Pan” o nella “Donna con un fiore” che in qualunque biografia o intervista, e il bello è che, se mi colpisce, se davanti a quella tela resto un attimo interdetto e avverto qualcosa che passa da lei a me e viceversa, c’è anche molto più di me. Certamente molto più e pescato molto più a fondo di quanto rivelato dalle mie unghie smangiucchiate o dal mio continuo sistemarmi gli occhiali.
Ma è bellissimo eh, io sono per i pezzi lunghi anche sul web, persino lunghissimi. E’ che qui, sul Cabaret, non mi aspettavo una simile perla ;-)
( a parte le solite fulminanti battute, certo e un po’ di sano cameratismo, o qualche recensione interessante, cosette così, ma questo pezzo è davvero speciale)
Se si vuole leggere qualcosa di importante bisogna decidere di fare fatica. O stampare, Questo scritto sulla forma, sul vedere davvero, questo pezzo che ogni volta presenta diversi chiavi di lettura, poetico e filosofico insieme è da stampare, da conservare, da rileggere.
Ehi, ma mi fate arrossire!
Io lo avevo presentato aspettandomi critiche (costruttive, per carità!), e invece guarda un po’!
@Nicola: scherzavo! Ma sono felice che ti sia così piaciuto, non avevo ben capito in effetti la tua opinione dal primo commento, anche se avevo intuito un certo apprezzamento.
@Luca: “Tutto sacrosantamente vero tranne “nella vita ciò che conta non è affatto la forma”. Nella vita la forma conta eccome, anzi è quasi tutto. Siamo ciò che facciamo, Elisa.” Come è vero. Solo che, vedi, se dicessi che nella vita la forma conta più della sostanza, come credo nell’arte, direi una cosa che non credo, o che credo solo in parte.
La forma è tutto. Ma credo che nella vita non si possa avere solo forma, la sostanza è necessaria. Poi la sostanza è visibile nella forma, la forma diventa sostanza ecc. ecc. ma non si può fare a meno della sostanza.
In arte no: dimmi tutto quel che vuoi, ma fammi vedere la forma, perché solo attraverso la forma mi comunichi la sostanza… ecco, devo forse lavorare ancora su questo concetto e ti ringrazio, è un passaggio che rappresenta senza dubbio un maillot faible…
Quanto alla verità, non mi azzarderei mai a entrare nel filosofico… non sono decisamente all’altezza. Quello cui mi riferivo è la verità nell’arte. “Truth, reality” queste le parole chiave degli autori che amo e che di realista non hanno nulla (Woolf, Eliot, Mansfield) ma hanno tanta verità all’interno delle proprie opere… quanta verità contiene la “manciata di polvere” di Eliot!
@Francesca: che dire… grazie e ancora grazie. Sono molto imbarazzata…!
giovanotto on. Mangiachechi!
le sue offese si lavano nel sangue! la sfido a singolar tenzone per domattina alle 6.00 davanti al Cinema Cosmos di Ficulle, dove mi trovo per una retrospettiva sul maestro A. Vitali: porti i suoi testimoni. vergonia!
cordialità
cav. Stacchia
Irremedibile Stacchia,
la tardiva convalida critica che si agita nelle acque di chi oramai non scampa più i rimpianti fa parte delle sue velleitarie pretese. Lei è comunista, il suo ostentato cinismo di retrospettivo recupero di un uomo del popolo come il Vitale è, non la salva dal nostro salutare biasimo. Noi e soltanto noi possiamo parlare del Vitale, e insisito solo noi, con onesta autoreferenzialità.
Detto questo l’avverto che domattina alle 6.00 sarò calato nella stesura del convegno “Prodromi di un’insubordinazione di massa ai gangli delle piattaforme politiche del comunismo italiano: l’Italia del 2008, cavalli e Cavaliere”.
giovanotto Mangiachechi (non la chiamo onorevole, in quanto Ella dimostra di non aver nessun concetto dell’onore!),
comunista a me? comunista a me?? ma Lei sa con chi sta parlando?? Lei sa chi mi diede questo titolo bello che sfoggio con tanto orgolio? fu LUI in persona, che quando ci penso ancora mi gommuovo, e le lagrime mi rigano le gote ormai senescenti.
in ogni caso, il suo volgare pretesto (un ‘onorevole’ alle 6.00 del mattino al lavoro? si faccia fotografare dal National Geographic, così fa un bello scoop!) non attacca: La aspetto dove Le ho detto fino al calare del sole, se è necessario, e riceverà la lezione che merita, pezzo di mascalzone. vergonia!!
con sentita e rinnovata cordialità
cav. Stacchia
Renitente Stacchia,
eludo di rammentarle il “Dionisalessandro” del commediografo Cratino, testé sono stato istruito dalla sua stessa veemenza stalinista. Nessun dubbio nutro giammai sulla sua fede comunista. Ma le sovvengo: “Cui predica a li surdi, appizza lu sermuni”. Ne avete avuta prova.
Vivamente la esorto a frequentare uno dei nostri corsi professionali: corso per operatore turistico e dello sviluppo del meridione nell’ottica di un Mediterraneo recuperato e traslato; corso per promotori delle dinamiche culturali del Mediterraneo; corso per formatori dello sviluppo territoriale; corso per condivisori di strategie multilingue nel contesto europeo. Veda di far germinare il suo acume a servigio della Nazione. Mi faccia sapere.
Intesi che l’elettore ha compreso la sua natura e l’operazione sottesa a essa, tipica delle sinistre che mistificano la realtà fino a presentare per destroso un sinistroso come lei al fine di stornare e frastornare.
Cordialità.
Alfonso Rubino Mangiachechi