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Il mònito di McCarthy
NOTA: nel post che segue viene svelata in parte la trama del libro La strada, e, soprattutto, viene svelato il finale. Quindi, dammi retta, fatti un favore: se non hai letto La strada, non leggere questo post, perché ti priveresti di un piacere grandissimo. Fa così: esci di casa, vallo a comprare, fatti catturare, leggi fino all’ultima riga e poi, se ne hai voglia, torna su CB.
Ieri ho comprato con colpevole ritardo La strada di McCarthy, l’ho iniziato a leggere verso le dieci di sera e alle due di notte l’ho finito, senza riuscire a distrarmi neanche dieci minuti, tutto d’un fiato come non mi capitava da tempo. Lo dicevano tutti quelli che lo avevano letto e adesso lo posso dire anch’io: La strada è un libro bellissimo. Un capolavoro. Ti rimane dentro. Ti fa pensare. E’ pieno di allegorie. E’ pieno di vita. E di morte. Ma più di vita, secondo me. McCarthy ha una fantasia visionaria pazzesca a sfrenata. E’ un genio.
Questa non è una recensione perché non sono un critico e poi perché, beh, la rete è piana di gente entusiasta di McCarthy, basta che digitate il suo nome su Google. Scrivo questo post, invece, per fare una riflessione. Anzi due.
La prima: è che La strada, prima ancora di essere un capolavoro, è un mònito. Suppongo che quello immaginato da McCarthy sia un mondo post atomico: alla fine le tensioni tra potenze nucleari sono sfociate in una guerra, che ha dato fondo all’armamentario di rigatoni (gigatoni, word, non rigatoni!). Una terza guerra mondiale a base di bombe atomiche e assurdo potenziale distruttivo hanno ridotto la vita sul pianeta Terra a un pallido ricordo.
Bene, io vorrei solo ricordare che negli arsenali degli Stati dotati di atomica, ce n’è abbastanza per cancellare la vita dalla faccia del pianeta. Cioè, il mondo che McCarthy immagina, è in potenza. Qualche mossa diplomatica particolarmente idiota, un dittatore (ma anche il capo di uno Stato libero e democratico) a cui non hanno voluto abbastanza bene quando era bambino, un qualche traffico oscuro, una qualche trama del cazzo che salta e si disfa, un qualche Generale particolarmente ispirato, un qualche Colonnello col pene troppo piccolo e che non riceve abbastanza spam, e la frittata è fatta. Il risultato, sarebbe più o meno come immagina McCarthy: il peggiore dei mondi possibili, Thanathos che ha vinto su Eros, la morte che trionfa, e non importa che McCarthy ci regala il suo meraviglioso lieto fine: la vita non è un romanzo, il mondo non sarebbe certo salvato da un uomo e un bambino, a questa follia non ci sarebbe rimedio.
Ecco, dunque: secondo me il libro di McCarthy è un mònito, e dovrebbe essere dato da leggere nelle scuole. Inoltre, bisognerebbe farlo leggere obbligatoriamente a tutti i presidenti americani, pakistani, indiani, francesi, iraniani, israeliani eccetera, cioè a tutti coloro che, ipoteticamente, potrebbero arrivare a spingere il bottone. Il mondo che McCarthy immagina va al di là dell’orribile: è un mondo in cui si vorrebbe essere morti. Il suo grande potere sta nel farci cambiare prospettiva sulle cose che abbiamo (mi sentivo strano, quasi fortunato, mentre leggevo, a sorseggiare una birra). Teniamocele strette, sembra dire McCarthy.
Un’altra cosa che volevo dire è che il messaggio sarebbe passato ancora meglio se McCarthy non avesse optato per il lieto (vabbè, “lieto” è un parolone) fine. Sarebbe stato più efficace, il mònito, se padre e figlio fossero morti di stenti. Sarebbe stato anche molto più triste e io sarei andato a dormire depresso. Però avrebbe funzionato ancor meglio, da questo punto di vista. Comunque il finale è meraviglioso.
Ci sarebbe molto altro da dire, su questo eccezionale romanzo. Però non c’ho tempo.
Una cosa che però volevo aggiungere è che, chiuso il libro ieri sera alle due di notte, ho acceso la Tv e su Rai Uno si parlava, dolce coincidenza, di questo (http://www.cartadellaterra.it/). E’ stato, non so, strano e bello chiudere un libro così catastrofico e imbattermi in tanti buoni propositi partoriti dall’Uomo. Mi ha colpito, soprattutto, sentir leggere questa frase:
“Ci troviamo in un momento critico della storia della Terra, un momento in cui l’umanità dovrà scegliere il suo futuro. Man mano che il mondo diventa sempre più interdipendente e fragile il futuro riserva grossi pericoli e, nello stesso tempo, grandi promesse. Per andare avanti dobbiamo riconoscere che nel mezzo di una straordinaria diversità di culture e stili di vita siamo un’unica famiglia umana e un’unica comunità terrestre con un destino comune. Dobbiamo unirci per portare avanti un società globale sostenibile fondata sul rispetto per la natura, i diritti umani universali, la giustizia economica e una cultura della pace. Per raggiungere questo obiettivo è imperativo che noi popoli della Terra dichiariamo le nostre responsabilità reciproche e nei confronti della comunità più grande della vita e delle generazioni future.”
25.01.2008 7 Commenti Feed Stampa
7 Commenti
CommentaStessa veglia notturna, simili emozioni, lacrime finali (sarà perché sono padre…). McCarthy è un biblista, mi pare, non poteva lasciarci senza il bambin Gesù…
Caro Marco, ho letto il libro appena è uscito.
Mi è sembrato da subito il capolavoro di McCarthy, ho ritrovato la stessa fibrillazione di Meridiano di sangue (altro grandissimo libro) e lo stesso grido di libertà di Cavalli selvaggi.
Non sono d’accordo sul discorso del messaggio e del finale.
Sul messaggio: i grandi libri – per me – non contengono nessun messaggio, ma solo senso. Un messaggio presuppone un’ideologia. Il senso un sentimento.
Sul finale: è bellissimo perché c’è una possibilità, un’ultima fiammella, per l’umanità, per la letteratura, per noi tutti.
Questa storia apocalittica non l’ho vista né come una profezia, né come un monito.
Mi è sembrata una storia. Una storia universale. Un grande racconto destinato a durare come le res gestae degli eroi.
McCarthy è il nostro Omero, La strada la nostra Odissea moderna.
Vedrai che la faremo Marco, perché siamo buoni.
E portiamo il fuoco.
Non so, capisco quel che intendi e forse è vero. Però l’impressione che io ho avuto è che quel libro lo sia a prescindere, un mònito. Secondo me McCarthy l’ha scritto per terrorizzarci su quel che potrebbe essere. Forse non è questione di ideologia, ma di messaggio appunto: che qui contiene anche, seppur in modo non univoco, e forse neanche voluto dall’autore, un mònito. Ma non lo so: credo proprio, a pensarci, che McCarthy ci voglia proprio dire: uomini, state attenti! Ammonirci, insomma.
Mah, comunque è un libro bellissimo, probabilmente il primo “classico” del nuovo millennio: un libro che fra trent’anni non avrà ancora smesso di dire quel che aveva da dire…
Cacchio, ce l’ho lì sul comodino in lista d’attesa. Anzi, era il prossimo. Stasera lo comincio. Spero di finirlo prima che il thread sia diventato obsoleto.
L’ho letto perché un padre mi ha detto che aveva pianto, alla fine. Mai letto nulla di McCarthy, prima.
L’ho letto, tutto d’un fiato, e non sono sicura di averlo capito. Ho avuto l’impressione che racconti una storia diversa a ogni lettore, molto più di quanto non riescano a fare gli altri libri. A lui, padre da due anni e poco più, questo romanzo ha detto cose che a me, studentessa ventiquattrenne, non poteva dire.
Non so, ho avuto l’impressione, alla fine, che mi mancasse qualcosa, che ci fosse, nascosto tra le pagine, un significato più profondo che io non avevo colto.
Finito ieri sera. Opinioni contrastanti (non riesco ad andare d’accordo nemmeno con me stesso).
Da un lato la sensazione è la stessa di AnniKa (“che ci fosse, nascosto tra le pagine, un significato più profondo che io non avevo colto”), dall’altro che il re fosse un po’ nudo nel senso che per dire tutto (o almeno per provarci) non c’è modo migliore di non dire nulla.
Non so. Non sono padre ed è il primo romanzo di McCarthy che ho per le mani. Forse per farmi un’idea più precisa dovrei leggerne altri.
Lo stile mi piace molto. L’ho sentito molto vicino al mio: pochissimi snodi narrativi e molte sensazioni e colpi d’occhio, la responsabilità del dipanarsi del senso demandata quasi per intero alle descrizioni e alle relazioni.
Tutta questa speranza finale però non l’ho vista. Volendo essere un po’ fattuali, il bambino prosegue la sua strada in un mondo nel quale non ci sono più animali o piante o altre fonti di cibo e le scatolette pre-catastrofe prima o poi finiranno quindi è solo questione di tempo prima che finisca allo spiedo o muoia di stenti. D’altronde se McCarthy si è preso il disturbo di descrivere l’ambiente in cui si muovono i personaggi così inguaribilmente sterile e desolato un motivo ci sarà.
Sotto sotto lo considero un gran libro, o magari la voglia di considerarlo tale è così forte da impedirmi di pensarla diversamente. Rimando un giudizio più definitivo a successive letture e integrazioni.
Non so, ripensandoci questo monito di cui parla Marco Di Porto io non riesco a vederlo, nemmeno sforzandomi. Come dice giustamente Luca Pettinelli, “McCarthy si è preso il disturbo di descrivere l’ambiente in cui si muovono i personaggi così inguaribilmente sterile e desolato”, eppure non ha fatto il minimo accenno alle cause di tanta devastazione; per come la vedo io, non ha la minima importanza, ai fini della storia, indagarne il motivo: quel che importa veramente è il presente narrativo, quell’atmosfera di solitudine e sconfitta e pericolo in cui nulla, nemmeno la speranza, è dato per scontato. Probabilmente ci sono molti modi per arrivare a uno scenario simile, e una guerra atomica e solo uno tra i tanti, ma altrettanto probabilmente non abbiamo motivo di preferirne uno a tutti gli altri.