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“Annunciazione, annunciazione!”
Chiara Cretella è una scrittrice che ama celare il sostrato letterario e ideologico, in senso gramsciano, dietro un tessuto narrativo scorrevole quando non pop. A questa feconda unione contribuisce sicuramente la formazione avanguardistica dell’autrice – che molto ha frequentato la scrittura di Adriano Spatola e Giulia Niccolai – avvenuta nella Bologna post-tondelliana degli anni Novanta. Nel romanzo d’esordio (Gli insetti sono al di là della mia compassione, Pendragon, 2003) la protagonista Hèlen, studentessa del Dams, non si tira indietro e anzi cerca, con una furia autodistruttiva travestita da gioia, di vivere qualunque esperienza la vita le proponga, per quanto atroce essa possa essere. Centrale è ovviamente il tema del rapporto con il corpo e con l’“altro”, in questo caso impersonato dal sadico fidanzato Lucio.
Anche in questa nuova prova narrativa (Annunciazione in metropolitana, Fazi, 2007) il la alla narrazione è offerto da un incontro: la protagonista Leanna è una neolaureata in scienze politiche che vaga per le strade di Milano in cerca di un’“annunciazione”. La troverà imbattendosi nel body artist Franco, un «dandy dei nostri giorni, sessualmente ambiguo» – come lo definisce Valerio Evangelisti nella prefazione – che ama passare il tempo vagando tra lapidi e tombe dei cimiteri, parlando con i becchini. Dal loro incontro ne scaturirà un rapporto intenso, votato a una sorta di riduzione dell’umano all’organico. La chiave di lettura del romanzo è probabilmente fornita dalla lettura di una sintetica e illuminante battuta della protagonista: «“Voglio che mi tatui sulla schiena il contorno di due ali, grandi, dischiuse. Ma dentro il contorno voglio che tu ci disegni esattamente le ossa e le viscere che ci sono sotto la mia pelle”. / “Ho capito dove vuoi arrivare: vuoi sembrare un trompe-l’oeil?”. / “Bravissimo, è proprio quello che intendevo dire”. / “Come se tu fossi trasparente”. / “Come se fossi di vetro”, ho detto entusiasmandomi». L’infinita immanenza dell’individuo al Discorso, prodotta dal pensiero postmoderno, non consente di “spiccare il volo”, ma solo di alludere ad esso. In altre parole, il significato ha perso qualsiasi possibilità di esistenza e il fatto letterario sussiste solo in quanto vernissage, in quanto presentazione di significanti tronchi, di simboli vuoti, di camp (un’ostentazione così estrema da avere un appeal profondamente raffinato, secondo la definizione fornita da Remo Ceserani). L’elemento rilevante della scena, infatti, non è tanto l’immagine delle ali, quanto il senso complessivo della trasparenza, del vuoto, della superficie.
E il romanzo della Cretella vive di questo contrasto tra l’attrazione prodotta dall’inesauribile superficie dell’esistente e la repulsione (in tutti i sensi) generata dall’affondamento nel corpo e nella carne. Non ci sono vie di mezzo: l’individuo o è corpo/materia o è immagine/vuoto. Ed entrambe le sfere risultano essere prigioni. Per evitare di amalgamarsi al mondo – lo stesso mondo vuoto a cui apparteneva suo padre, politico corrotto della vecchia Repubblica – Leanna si getta a capofitto nel corpo. E lo fa con una vocazione nemmeno tanto autodistruttiva, quanto piuttosto decadente: l’incontro casuale e poi rivelatorio con Franco è di marca decisamente scapigliata e l’autrice, d’altronde, è studiosa di Camillo Boito. Franco fungerà da vettore per accompagnare la protagonista nel suo viaggio di estraneazione dal mondo: gli esperimenti artistici su e con Leanna, alludono al rapporto tra arte e corpo sottoforma di una sorta di costrizione che è ontologica prima di essere psicologica (e qui non può non citarsi il marchese de Sade, il cui capolavoro incompiuto sui “prigionieri” di Sodoma fu scritto appunto nel chiuso di una prigione). Il corpo diventa dunque il campo di battaglia dell’identità e dell’arte stessa: un’identità già inesistente e fatta a brandelli, con i cui soli lacerti si può tentare di impiantare un discorso che esca fuori dall’ordinario, dal ronzare del continuum mediatico. Come scrive Roger Bataille, peraltro citato a più riprese nel corso del romanzo: «l’erotismo considerato gravemente, tragicamente, rappresenta un capovolgimento totale». Il romanzo della Cretella contrappone la morbosità della carne alla virtualità del corpo, e in questo senso opera una delle due uniche scelte possibili per salvare la materialità in epoca postmoderna (l’altra è il basso-materiale corporeo in senso bachtiniano).
Ma il decadentismo di Annunciazione in metropolitana si avverte anche nelle atmosfere dark, non inquietanti, quanto piuttosto rarefatte ed evanescenti. Questo tipo di ambientazione ha il pregio di costruire una sorta di schermo tra il luogo dell’azione narrativa e il resto del mondo, rendendo sfumato tutto l’“oltre”. E questa forma narrativa accosta la Cretella ad altre scrittrici che, pur di formazione ed età diverse, costituiscono una sorta di trait d’union, quasi una “scuola”: vengono in mente innanzitutto Simona Vinci, Isabella Santacroce ed Alessandra Amitrano. Questa scrittura femminile, con tutti i connotati di genere, spesso volutamente ricercati, riesce mai quanto oggi laddove la narrativa scritta da uomini spesso fallisce.
19.12.2007 10 Commenti Feed Stampa
10 Commenti
CommentaCommento-confronto tra me e Chiara Cretella sul nostro modo di essere “diversamente tanatofile” (di EG).
Sorta di Trainspotting in versione decadente, il romanzo appare, ben più che una denuncia, una sorta di monumento al Repellente, alla fascinazione necrofila, al peggior trash del kitch religioso esistente: quello costituito dalle collezioni di ex voto e reliquie (stile cappella del santo a Padova che custodisce, tra le altre, il barbetto di S.Antonio – quello rubato e ritrovato – ossia la mandibola coi peli della barba ancora attaccati alla pelle mummificata del mento). Cosa è più raccapricciante del pelo sporco, attorcigliato, raggrumato? Ma la Cretella non esita ad elevarlo a dignità artistica, racchiudendolo in una teca conica di cera trasparente (insieme ad un occhio di agnello). Quello che inquieta maggiormente è che lei ne da una sorta di versione laica, rivendicando l’esteticità anche di questa perversione … che io ho sempre e con certezza attribuito alle più estreme derive psicotiche del feticismo religioso. Quanto alla Storia dell’Arte Cretella va a scegliere proprio quanto il gusto comune nostrano, intriso del canone della compostezza classica, espunge come ripugnante espressione di morbosità. Malgrado l’entusiastico recupero attuato dalla nostra critica d’arte novecentesca (partendo da Longhi) di tutto l’espressionismo nordico presente e passato (pure esso così anticlassico!!!), resta tuttora indigeribile il nucleo estenuato rappresentato dai Preraffaelliti e da certo Liberty cimiteriale… quello che io stessa, in “Istruzioni per la sepoltura”
(poesia del mio libro “Il Buffo della Poesia”, in prossima uscita…), definisco “grevi leggiadrie di applicazioni Jugend, novella taglia di un raccapriccio alla Poe”, per poi inneggiare ad una architettura cimiteriale più… ‘allegra’.
La scelta di Chiara è talmente e così radicalmente incentrata su quanto vien spontaneo scartare senza remore che, proprio per questo, è giusto lasciarsi da lei provocare, anzi, “infettare”, come m’ha scritto nella dedica. E se non dicessi così mi contraddirei. Non ho appena finito di scrivere che l’arte ‘mitizza’ qualsiasi cosa tocchi? Indipendentemente dalla bassezza o disgustosità del tema trattato?
Quanto a quest’ultimo poi, che ci facevo io l’anno scorso al Convento dei Cappuccini (altresì detto Catacombe) di Palermo, alla spasmodica ricerca delle 8000 mummie ivi custodite (non celate da bende, ma smandibolatamente ghignanti di tra i brandelli dei loro abiti originali)? E perché mi sarebbe parso di ‘fallire l’intero viaggio’ se non fossi riuscita a vederle? E cosa ci facevo, già da ragazzina, in giro da sola per le pievi alpine, a caccia di Danze macabre e Trionfi della Morte? E’ che, come perversione, come attrazione per l’orrido, mi pare ad uno stadio più ingenuo, più ‘comune’
rispetto a quello della Cretella. Mi sento superata 1000 miglia dal suo gusto, s-gusto, de-gusto dell’orrido (horror). In me c’è ancora una reazione di difesa divertita, in lei c’è passione e proposta. Io ho scritto poesie sulle tombe, ma perché le volevo più ‘solari’, più vicine alla vita; e degli scalpellini pure ho parlato, ma estraendoli dal loro contesto, intrecciandoli ad una tranquillizzante quotidianità. Lei invece si compiace di lasciarli ben iscritti nel loro contesto abituale (ne’ la presenza delle automobili li riscatta), indulgendo ad ogni possibile ‘grevità’. Io sono arrivata fino a quelli che ho chiamato “I DISTILLATORI DELL’ORRIDO”:
Grunewald, Poe, Schiele, Francis Bacon ecc…. gente che, chi più chi meno, in qualche modo controlla la devastazione sul corpo utilizzando lo strumento della compostezza e della misura; Cretella scavalca costoro… e galoppa Bataille, Jarry, Apollinaire, la letteratura erotica degli anni 30 sù sù fino, e oltre, credo, Frida Kahlo… coi suoi feticciosi quanto rappresentativi repertori della cultura sacro-magica popolare messicana.
Tutto ciò ho sì, anch’io, sfiorato, ma senza sentir scattare fascinazioni.
Ma dove io esorcizzo ancora la morte sbirciandola di lato e ridacchiando, Cretella invece la guarda in faccia e l’affronta. Dove io mi illudo, disciplinando il macabro, di tenerlo a distanza, lei lo pratica e lo esplora nella sua fisicità. Posso allora io, col mio atteggiamento, avere la presunzione di esprimere un rapporto ‘più sano’ del suo nei confronti della morte e del disfacimento della carne? O siamo entrambe, seppure su una modulazione differente, ugualmente perverse?
Ma una domanda si impone a questo punto. Dove sta la differenza fra queste ‘devianze’ – che mi intrigano – e quelle che al contrario osservo con stoico raccapriccio davanti all’ostensione del cadavere di Padre Pio?
Perché
sono tanto indulgente davanti a allo studioso o all’artista che espone feti, deforma o scarnifica parti del corpo, mentre mi sento incolpevolmente dogmatica quando catalogo come ‘psicosi grave’ ogni forma di bigottismo feticista?
“Il CULTO è una cosa diversa dall’INTERESSE, per quanto appassionato quest’ultimo possa essere”, m’ha risposto con disarmante naturalezza la mia ‘nuorina’ ventitreenne… rassicurando le mie inquietudini d’esser divenuta d’un tratto simile a quei che da sempre disprezzo…. Ed in effetti l’osservazione funziona. Perché è verissimo che l’ ‘interesse’ è pur sempre segnato da una distanza critica e perfino da un ‘divertissement’, cose che alla ‘devozione religiosa’ mancano del tutto. E’ infatti questa la ragione per la quale mi concedo di trovare tanto seducenti le ‘ingenuità del passato’ – mitologie, magie, superstizioni ecc. – che, nell’attualità, non riesco invece a perdonare: è che lggiù posso lasciarmi andare al gioco senza esserne coinvolta. …. ma forse qui mi sto contraddicendo… come a dire:
c’è
un nocciolo di piacevole, di attraente, di estetico in quel morboso, in se stesso. Bah. Forse la ‘virtù’ va, come al solito, cercata ‘in midia’, come il vino: W la soglia dell’ebbrezza, ma che non si sia NOI ne’ tra gli astemi, ne’ tra quelli che nel vino ci annegano!
Ad ogni modo facciamo finta che la ‘normalità’ sia in salvo. Si deve essere normali per forza? Chi è normale, d’altra parte? E, se è la MAGGIORANZA che stabilisce cos’è ‘norma’, come può dirsi ‘normale’, per es., lo stato di rimozione ostinata in cui si vive, oggi più che ieri, nei confronti della morte (l’hai detto tu che dopo le Avanguardie si sono lasciate cadere molte interessanti meditazioni sul tema)? E quanto è normale l’auto-inganno immaginario a cui ricorriamo da millenni? Quello che consiste nell’attivazione degli “stolti conforti” di leopardiana memoria:
‘immortali, rincontreremo i nostri cari in un luminoso aldilà di pace e giustizia’… Può reclamarsi ‘sano’ chi, a furia di raccontarsi favole clamorose, secerne DOPAMINE NATURALI in grado di distrarlo, di aiutarlo a dimenticare (anzi a negare) la nostra reale contingenza? Essere stupidamente capaci di smemorare è segno di salute e maggior predisposizione a vivere?
(Pare di sì…vedi uno degli ultimi numeri di “Focus”, dove vien detto che gli unici realisti sono i depressi, i quali però vivono 10 anni meno di chi si racconta bubbole… ma già lo sospettavamo per conto nostro…).
Per tornare infine al romanzo nel suo complesso (al dilà del fatto di essere un romanzo ‘ben scritto’ e, oserei dire, anche ben confezionato a livello di equilibrio strutturale) aggiungerei ancora che, se lo scopo era quello di proporre “un punto di vista capace di forzare categorie, minare stereotipi, far esplodere il senso comune”… e di suscitare vivaci reazioni nei lettori (come questa mia…) tale scopo è stato pienamente centrato, e non è cosa da poco.
Aggiungo un commento di mio marito Alberto: “Per me è più necrofilo il rapporto della madre col divano ricoperto di plastica che quello dei protagonisti con le loro creazioni ‘artistiche’ “.
In attesa del prossimo romanzo sulla donna-moncone, in mostra nel baraccone Barnum… (incontrerà o no Man Ray in Europa?) un saluto pieno di sincera simpatia da me, che sono
Eleonora Galliani
Chiara Cretella, memorie dal sottosuolo
Intervista a Chiara Cretella
di Christian Donelli
Controcultura e canone accademico, letteratura e arti visive, politica e femminismo: Chiara Cretella, scrittrice, critica letteraria, collabora alla cattedra di Letteratura Contemporanea del Dams di Bologna come Cultore della materia, è caporedattrice della rivista di poesia e studi di genere “Le voci della Luna”, scrive per riviste e quotidiani nazionali, ha pubblicato Gli insetti sono al di là della mia compassione (Pendragon) e Annunciazione in Metropolitana (Fazi), oltre ad una lunga serie di saggi, testi critici, prefazioni e traduzioni. A 31 non ci sta ad essere considerata una giovane autrice e critica e contesta l’immobilismo culturale italiano che porta a considerare i giovani artisti solo come una “patologia da curare”.
Università e cultura underground: può esistere un legame solido tra le due realtà? Quali suggestioni (artistiche e professionali) sviluppi collaborando come Cultore della materia al Dams?
“I legami tra i due settori sono praticamente quasi inesistenti oggi, specialmente in campo letterario. Pochi avventurosi accademici mettono il naso fuori dalla cultura morta del canone, figuriamoci parlare di underground (anche l’atlante che ho curato sulle controculture dell’Emilia-Romagna è infatti difficile da inserire nei programmi d’esame). Sommovimenti critici in questo senso vengono più dai sociologi o dagli antropologi, che infatti cerco di frequentare il più possibile. Anche il Dams sotto questo punto di vista è abbastanza lacunoso, terribile visto che in passato è stato una fucina di associazionismi di giovani talenti. Quello che imparo non lo imparo dall’Università ma dagli studenti a cui faccio esami, sono loro che mi insegnano i nuovi slang, i loro gusti sempre in mutamento, le comunità nascenti, la creatività nel vestire che al Dams è sempre stata una connotazione importante di diversità. Amando molto la storia del costume e del design i nostri rimandi sono proficui, può capitare che parlando di avanguardie si arrivi a discutere di un taglio di capelli o della texture psichedelica di un abito. Cerco di avvicinarmi il più possibile ai loro interessi, l’importante non è studiare ma percepire il ragionamento come metodo applicabile nella vita”.
Metamorfosi, trasformazioni di identità e di corpi. In Annunciazione in metropolitana il gotico scende su una Milano attuale ma totalmente decontestualizzandola: sembra di essere in un ’77 che profuma d’Ottocento e di Rainer Maria Rilke.
“Di ’77 – di cui mi sono occupata per molti anni dedicando al fenomeno diversi studi – credo ce ne sia poco o nulla nel mio testo. Le ambientazioni sono tutte ottocentesche e derivano dal mio Dottorato di ricerca su Camillo Boito, architetto, critico d’arte, scrittore e direttore dell’Accademia di Brera per mezzo secolo, fino ai primissimi anni del Novecento. Dunque l’idea era di riportare in vita la Scapigliatura, che può anche essere considerata come la prima avanguardia italiana. L’ipotesi di un Tarchetti contemporaneo, tutto dedito al culto della morte poiché politicamente scorretto nel declamare la decadenza di un Risorgimento incompiuto, mi sembrava molto attinente con la nostra epoca di restaurazione. Gli altri rimandi più che a Rilke vanno all’area francese, prevalentemente a Sade, Gautier, Anatole France, Villiers de l’Isle-Adam”.
Sei caporedattrice della rivista letteraria “Le voci della Luna”: come ti accosti all’analisi di lavori di giovani autori, essendo tu stessa molto giovane per il panorama della critica italiana?
“Ti ringrazio ma a 31 anni non mi sento e non sono giovane, semplicemente l’Italia è dominata dalla gerontocrazia. Pensa che un quaranta-cinquantenne oggi è ancora chiamato un giovane scrittore! In realtà questo nasconde un immobilismo allucinante, tributo che l’estero non paga. Cosa può capire un critico settantenne – come molti ce ne sono oggi – delle ultime espressioni giovanili? Molto poco, gli sfuggono la lingua, il contesto, gli strumenti e i supporti informatici, una marea di cose insomma. Tutte cose ovviabili comunque, se gli anziani imparassero dai giovani invece di fare finta che essi siano una semplice patologia da curare o di farli permanere forzatamente in un precariato e in uno stato che considerano di minorità intellettuale.
Personalmente faccio critica da quando avevo venti anni, “Le voci della Luna” è stata la prima associazione in cui sono entrata ma nel frattempo nel corso degli anni ho scritto per moltissime riviste e anche quotidiani, senza contare che il lavoro accademico è esclusivamente un lavoro critico. Non ho dunque nessun problema ad accostarmi, specialmente dopo il Dottorato che mi ha fornito una solidità di categorie critiche che si sono sedimentate sul parallelo lavoro di scrittura creativa, ai giovani autori. L’unico problema sui giovani è l’estrema difficoltà nel trovare cose convincenti e innovative, in quanto personalmente cerco una poesia che non sia intimista ma propriamente di impegno politico, oppure “confessionale” in quanto strumento di analisi di genere. Tutte cose che sembrano sconosciute alla letteratura della mia generazione e a quelle successive. I motivi sono variegati e complessi, impossibile accennarne in questa sede. Per questo in realtà negli ultimi anni la maggior parte dei testi che ho scelto di prefare per editarli nelle “Voci” sono stati spesso dei celebri nomi della nostra poesia – ad esempio nell’ultimo numero ho pubblicato gli inediti di Enzo Minarelli, Giovanni Fontana, Laura Pugno –. Per la rivista curo anche la parte iconografica. Scelgo un giovane autore underground che illustrerà tutto il numero e gli dedico un articolo critico. Per quel settore non faccio nessuna fatica invece a trovare artisti interessanti, molto davvero geniali anche quando sono ancora in erba. La redazione poi – siamo una rivista di studi sulla poesia e sulla letteratura femminili e sui femminismi –, è molto preparata e sparsa in tutta Italia, così abbiamo sempre tante novità da tutto il territorio nazionale – ad esempio abbiamo edito molti testi in dialetto – ma tanto traduciamo di inedito anche dall’estero”.
Hai studiato le espressioni artistiche nei movimenti di contestazione: in che modo l’arte può essere rivolta? Matteo Guarnaccia crede che l’arte sia in grado di rappresentare, sempre, una “scheggia impazzita”.
“Guarnaccia, che è stato uno dei primi che ho conosciuto e intervistato quando ho iniziato a studiare le controculture, è secondo me uno dei più fecondi illustratori italiani. Non capisco perché le case editrici si ostinino a scegliere delle grafiche così deludenti, ridicole, romantiche nel senso più deleterio della parola. Questa idea poi, che sia sempre necessario mettere una foto in copertina e non un disegno, trovo sia castrante e controproducente, abbiamo una fucina di giovani illustratori in Italia tra i migliori del mondo che non trovano lavoro se non nei pochi libri per bambini! Anche il mio testo era un romanzo illustrato, ma l’editore ha rifiutato le splendide tavole e la copertina che avevo scelto. Questo già risponde alla domanda che mi fai: l’arte, se è vera arte è sempre rivoluzionaria poiché è un esercizio dell’intelligenza e un rovesciamento della logica del potere. Questo spiega perché le gallerie sono piene di immondizia commerciale. Gli artisti veri, come i veri attori e gli scrittori di talento, sono tenuti a latere della grande distribuzione. Non sono producenti alla logica culturale di questo capitalismo che tutto ingoia e rivende, soprattutto gli spiccioli d’avanguardia e di controcultura, pensa solo al Rap, ma questo sta avvenendo anche per molta street art”.
Valerio Evangelisti, come nasce la collaborazione con il grande scrittore. Trovi un’analogia con le sue modalità di scrittura?
“Collaboro a Carmilla con interventi per lo più sociali o letterari. Io e Valerio, oltre all’impegno politico, abbiamo in comune l’interesse per la storia, lui come studioso di formazione, io come base da utilizzare per la critica letteraria e per un romanzo storico che sto iniziando a scrivere. Devo dire che ho letto prima i suoi saggi storici, l’ho utilizzati nei miei studi sui movimenti politici a Bologna, per questo poi gli ho chiesto un breve saggio sul ’77 da inserire nell’Atlante dei movimenti culturali. Anche a lui interessa l’Ottocento, con un taglio però sempre politico che riguarda gli scrittori e il loro rapporto col Risorgimento, mentre io lavoro molto sull’estetica. Scrisse una recensione a Una nobile follia proprio mentre stavo iniziando a seguire come correlatrice la mia prima tesi di laurea su Tarchetti. Mi illuminò il fatto che ricordasse, lui così lontano per gusti e formazione, un piccolo grande classico dimenticato del nostro Ottocento letterario. L’analisi delle rappresentazioni della morte, che studio da qualche anno, credo sia un altro fronte che a Valerio possa interessare. Altro filone che mi accomuna ai suoi studi – seppur con fini diversi – è la ricerca sul fantastico. Io studio quello tra Sette e Ottocento, ma anche quello surrealista, ed insieme lavoro sul perturbante legato alle iconografie ed epifanie femminili. Un progetto complesso in cui cerco di far convergere una lettura femminista. A questo punto capisci che Carmilla non poteva che attrarmi come Mircalla”.
Come ti sei avvicinata alle scritture carcerarie?
“Studiando il ’77 sono arrivata alla repressione e alle leggi speciali, da lì il passo è stato breve. Ho approfondito per un po’ il terrorismo rosso degli anni Settanta e ho scoperto che in carcere molti – quasi tutti – hanno scritto dei libri. Questi testi non sono stati fin’ora analizzati come opere letterarie ma solo come documenti di un’epoca, neanche come documenti storici. Vedere in definitiva come l’esperienza politica abbia potuto incrociarsi con la letteratura è stato interessante e innovativo. A loro è ancora negata la parola, perché saranno sempre e solo quello che sono stati, ma Barbara Balzerani o la Colotti sono grandi scrittrici, così come è degno di essere studiato come classico il testo struggente di Naria – ormai introvabile e mai più ristampato – o come è importante esercitarsi criticamente sulla riflessione raffinatissima dello stile di Curcio. Un tabù della critica che è ridicolo e che fa ancora parte della rimozione politica su quegli anni. Ma la critica accademica è poi sempre stata così, si accorge solo 50 anni dopo di quello che le succede sotto il naso”.
Un artista, uno scrittore, un poeta
“Scusa ma li declino in un’artista, una scrittrice e una poetessa: Artemisia Gentileschi, Rachilde, Anne Sexton”.
Troppo lungo per essere considerato spam. Ti salvi.
:)
Tanto è un commento talmente lungo che non lo leggerà nessuno. Sembra un post di Nazione Indiana, figuriamoci.
Che c’azzecca NI o la lunghezza dei commenti.
Questa é l’Olimpiade dei recensori.
Chi non ha attitudine ne resti fuori e lasci che segua la tenzone.
Io intanto aspetto la discesa in campo dell’esimio Cav. Stacchia
Trovo molto interessanti queste recensioni di Angelo Petrella, Galliani e Donelli sul libro della Cretella che a questo punto leggerò certamente.
Per favore non inducetemi il sospetto che anche dietro questa Olimpiade ci siano i soliti interessi economici.
In che senso, Leo?
Nicolò, ti prego di considerare questa mia osservazione quale quella di un neofita di un blog che poco o niente conosce.
Si posta le recensione di un libro.
Dopo 5 mesi come primo commento si posta una nuova recensione addirittura più lunga della precedente.
Passa una settimana e si aggiunge un nuovo commento che altro non è che una ulteriore interminabile recensione dello stesso libro.
Tutto ciò appare il tentativo forzato di dare visibilità ad un post passato inosservato, ci scherzo definendola una olimpiade cercando di recuperare anche un attacco ad un altro blog che seguo e stimo, quando arrivi tu, come il testimonial che mancava, pronto a dirsi convinto della bontà del prodotto reclamizzato.
Sono certo che la casualità ha determinato il susseguirsi di tutti questi eventi ma permettimi di cazzeggiarci un pò su