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Incipit 2.0: Incipit buttàno
Il silenzio resuscitava quel tanto da fottere qualunque significato al pus che mordeva la gamba del capitano, infetta e secca come una frasca bruciata. Molle era la consistenza di quel silenzio, doveva incoraggiarlo con lunghi sorsi di vino rosso, quello di cui si vantava come il papa dopo il sacramento, quello delle vigne che gli offrivano a premio dei servigi di sbirro; doveva incoraggiarlo in questo modo-bestia, e pur gli andava di assecondarlo, il silenzio, di aspettare che la bolla gli si gonfiasse proprio dentro la nasca, e lo trasformasse in un lattante, tutto puzza di nuovo e purezza, rutti e sibili.
“Ogni ragione e speranza è in me!” Bofonchiava di tanto in tanto, tra una boccata di vino e l’altra, non curandosi dei mosconi che si abbeveravano nei mille rivoli di vino che sgorgavano prepotenti dalla sua bocca spalancata come un buco nero. Ammollava la lingua nella saliva, la passava placidamente tra i denti sbreccati e tornava all’attacco:
“Ogni ragione e speranza è in me!” Insisteva, e il picciottello, che lo braccava come un cane di mànnera, gli sventoliava la piuma sulla testa, a cercare la frescura, nel caldo buttàno di quel giorno di agosto del 1571. Tastava con la mano destra la natichera soda della ‘gnura Pasquala, la quale se ne stava al suo capezzale, messa a culo a ponte, con la vesta alzata per permettere a lui, il capitano d’arme Mario de Tomasi, di arricriarsi i polpastrelli al contatto con la sua pelle calda che prima di allora solo suo marito aveva potuto toccare. La ‘gnura Pasquala doveva pazientare, per tutto il tempo che il capitano Mario de Tomasi riposava a letto, subito dopo il pasto di mezzogiorno, lui con la panza in aria a digerire il sacro mondo che aveva mangiato, e lei a culo a ponte, per scontare il debito di pena che suo marito aveva contratto con l’illustrissimo capitano di ‘sta minchia, cuppulittuni iddu e cu ‘un ci lu dici. E si stava spaccando la schiena, in quella posizione, tant’è che cercava sempre di appurare quando ddu Mario de Tomasi si addormentava, per potersi riposare. Ma quando pareva il momento giusto e la ‘gnura Pasquala si stirava la schiena per il sollievo, quello si svegliava tutto incancrenito e la colpiva sulle reni, come se fosse una giumenta, e la ‘gnura Pasquala tornava come prima, a culo a ponte, con le mani del capitano che la tastavano per trastullarsi. E quando le pareva che quella bestia d’omo volesse togliere lo sfizio di incularsela si lasciava lentamente sgonfiare, sfiatando da dietro, così da fargli passare la voglia.
Il capitano chiuse gli occhi ma li riaprì subito. La febbre, minchia! La febbre del pus! Ogni tanto urlava alla ‘gnura Pasquala:
“Girati, bestia!!!” e quella poveraccia si girava. Lui allora le leccava, con quella lingua di bue che la natura gli aveva donato, le occhiaie di stanchezza che in un mese di servizio si era conquistata. Occhi a pampina d’olivo erano ormai quelli della ‘gnura Pasquala. Poteva sentire con la lingua il gonfiore acquoso sotto la pelle della ‘gnura, apprezzare i liquido lacrimale che le sgorgava dagli occhi, amaro al punto giusto. La poveretta provava ad alloppiarsi con la testa alla parete, ma non ci arrivava. Allora il capitano le sferzava un’altra bastonata mentre il picciottello, quasi a interpretarla come un segnale, aumentava con lo sventolio della piuma.
Se ne stava così, quando poteva, tutto il santo primo pomeriggio, sdraiato lungo lungo sul letto, con una mano sulle natichere della ‘gnura Pasquala e la fronte abbrustolita, appena rinfrescata dallo scolo del sudore e dallo sventolamento della piuma del picciottello figlio della ‘gnura.
Questo aveva preteso il capitano: che fino a che il debito del marito – mastro argentiere caduto in disgrazia – non fosse stato scontato, lui potesse, o meglio dovesse portarsi con sé quel donnone della ‘gnura Pasquala, scrofa tutta minne e culo, e il figlio di lei: la ‘gnura per i suoi porci comodi di minchia grassa assatanata; il picciottello come servitore di piuma, per alleviargli le pene del caldo infiammato di quella stagione, di quel sole infuriato in alto nel cielo e luccicante come una lapide di marmo, esagerato come un iocu di focu.
Sotto, nell’aia, stavano squartando il cigno, quello che sua eccellenza Mario de Tomasi aveva indicato come pasto per la sera. Il capitano volle affacciarsi alla finestra, e lo fece di botto, pestando con la mano il naso del picciottello e spingendo a terra la ‘gnura Pasquala, con tutto il suo corredo di culazzo sfiatato.
“Tirategli il collo!” urlò il de Tomasi, “il collo! Figli di buttana! Manco un cigno sapete ammazzare!” Gli uomini della squadra del capitano d’arme non sapevano neanche squartarlo con perizia, ‘stu finocchiu di cigno.
Mario de Tomasi mirò in lontananza e scorse il macello, con lo strazio dei buoi che si sentiva come se fosse lì, dietro l’angolo. Vide i villici tutti impegnati a raccogliere il sangue che scolava dal macello: lo avrebbero mangiato bagnandoci il pane e la crusca, cercando di scartare il vomito di chi proprio non ce l’avrebbe fatto a ingoiarlo crudo e caldo.
“Vermi di terra, vermi bastardi. Vermi di carcame, schifosi”. Mormorò tra sé e sé.
Manco il tempo di cercare la bestemmia più adatta all’occasione, quella più rifinita, di tirarla fuori facendola staccare dalla gola con uno scaracchio, bello dolciastro – il de Tomasi marcava il territorio sputacchiando qua e là – che la gamba infetta si rifece sentire, prepotente e dolorosa come sempre.
“Tirategli il collo, bestie!” Urlò di nuovo, più per dimenticare il dolore alla gamba che per altro. Finalmente, Gasparuccio Zazzotto, che era il capo ciurma di quella banda di militi teste di minchia, si decise ad estrarre il coltello, e lo piantò nel collo del cigno. Il bianco delle piume parve risplendere più del solito, per un attimo, mentre l’animale veniva scaraventato al suolo dalle braccia che prima lo avevano preparato alla lama di Gasparuccio Zazzotto. Il capitano non si perse quel luccichio, aveva un grande occhio, de Tomasi, il sole che splendeva arraggiato, alto nel cielo – sì, era vero: come una lapide lustra – era proprio quello che ci voleva. Rimase affacciato alla finestra ad aspettare che la ciurma si allontanasse un momento, lasciando il cigno morto e solo al centro della ciottolata del baglio, con i primi mosconi che, dopo aver lasciato i suoi caldi rivoli di vino, già scambiavano la carne appena morta – ma era ancora calda! – dell’uccello per carcame.
“Siete una merda!!!” Strillò la ‘gnura Pasquala. “Siete niente. Come fate a non capire che siete già morto e seppellito?!”
“Che diciti vossia?!” Si infuriò il capitano sputando rutti. “Buttana di donna persa! Come vi permettete, nella condizione in cui siete? Disprezzate la mia gamba?! Ma io v’accopperò prima che essa accoppi me, ricordatevelo, ‘gnura Pasquala!!!” E mentre parlava si slacciava furioso la currìa dei pantaloni e tirava fuori la minchia eccitata per le minacce; essa già esibiva le vene gonfie di sangue zampillante, pronto a sfogare nel culo della ‘gnura Pasquala la rabbia del capitano, riempiendola tutta.
“No”, piagnucolò lei, “non mi interessa la vostra gamba!” E, raschiato uno scaracchio nel fondo della gola calda di rabbia, lo sputò sulla ferita del capitano, “capitano, voi siete morto, perché il mio parente vi farà conoscere la morte, quella che è ancora più brutta di voi”.
“Il vostro parente?!” Ringhiò mentre già accomodava il suo bacino sulle natichere della ‘gnura Pasquala e, incurante di quel buco che continuava, disperatamente, come ultima difesa, a emettere aria, piantava la minchia dritta nel culo. “Vostro marito è un debole, vostro marito mi deve quattrini, e finché non me ne avrà dati voi e il vostro picciottello sarete di mia pertinenza. Vi potrò pisciare in bocca, ricordatevelo. E adesso piegatevi che mi dovete soddisfare e chiedete al picciottello di continuare con la piuma, in altro modo lo strangolo, e se vuole girarsi si giri pure, e se vuole guardare guardi pure, basta che mi dia i giusti sventolii”.
“No, capitano, vossia non ha capito: non parlo di mio marito, sapete bene chi dovete temere: il mio figlio grande”.
“Ahahahah, Pietro Spinello detto Cissi, sapete che è alla Vicaria! Come pensate che possa aiutarvi il vostro figlio grande?”
“Uscirà e vi mangerà il core!!! Ve lo strapperà a morsi e dopo averlo masticato lo sputerà nella vostra merda!” La ‘gnura Pasquala fece appena in tempo a finire il suo arraggionamento che un rantolo le distrusse la parola.
Infine, quando il bacino del capitano l’ebbe ricoperta del tutto la ‘gnura principiò a guaire, come se qualcuno la stesse scannando viva (…)
4.04.2007 22 Commenti Feed Stampa
22 Commenti
CommentaBello.
Grazie. Forse diventerà un romanzo.
Nicolò, mi piace questa prosa che flette e torce lo stile sin quasi a spezzarlo.
luca
Ciao Luca!
Stampato su carta due veli sarebbe un successo.
In alternativa potresti dedicarti al decupage, perché insomma in effetti si capisce che ti sei impegnato ma se guardi a quello che si scrive ti rendi conto da solo che non è un genere che ha molto successo.
Non ti ho capito, c.r.
Siamo nel XXI secolo, dove la lettera è passata dai conflitti mondiali, dalla psicanalisi, dalla filosofia esistenzialista, ed ora, cosa dovrebbe fare, secondo te, tornare indietro? Sei molto anacronistico. Però, i gusti sono gusti. A me per esempio queste belle risorse letterarie sarebbe venuto in mente di usarle diversamente.
Però devo dire che le scoregge le uso anch’io.
Boh. Dimmi come ti chiami che ti vengo a trovare: così mi spieghi meglio tutte queste belle cose intelligenti che sai.
Ma no, dicevo per finta. Le ho usate solo una volta per scrivere un racconto. Ciao. Non disturbarti.
Scusa mi sono lasciato prendere dalla storia e non ho capito il limite. Mi spiace. Adesso ho capito e ti ringrazio. Però se scrivi una storia così dovresti anche pensare che chi la legge magari la pensa in modo diverso dal tuo, e magari ci rimane male. Ma non è un giudizio il mio. E se per caso hai pensato che fosse un giudizio, mi sono sbagliato ad esprimermi. Però non pensare che ce l’avessi con te. Scrivi bene, non sono d’accordo coi temi che tratti, però scrivi bene. Ciao.
E poi, susa ancora, ma non ho mostrato molta intelligenza. So quattro cose in croce e cerco di farle fruttare. Sono un esordiente in cerca di editore e in questi casi bisogna farsi notare. Scusami ancora.
Adesso ho capito dove sbagliavo e vedrai che non darò più fastidio. Promesso. Ciao.
Mi spiace. Non so cosa dire. Dev’essere stato il testo che ho letto. Scusa ancora.
Capisco le tue ragioni e mi spiace di essere stato maleducato, però è stato questo testo che mi ha turbato più di quanto potessi immaginarmi. Scusa di nuovo, la mia critica non voleva essere rivolta a te ma solo al testo, mi spiace.
Hai tutta la mia stima e il mio rispetto anche se ritengo che quello che hai scritto non mi piace. Non sto criticando il tuo valore di persona ma solo le tue scelte letterarie. Tutto qui. Sei libero di fare ciò che vuoi e scrivere come ti pare. Ogni persona vale in quanto persona. Quindi scusa se mi sono fatto fraintendere. Quello che criticavo era il testo in sé, al di fuori della tua persona rispettata in quanto tale. Scusa per l’ennesima volta e grazie per questa possibilità di chiarirmi a me stesso le idee. Grazie davvero. Buona continuazione e buona scrittura.
Adesso, chiarito che non ce l’ho con te, visto che hai pubblicato questo testo, lo vorrei commentare. La prosa è potente perché lascia capire molto della miseria umana, è efficace nelle descrizioni, equilibrata, e questi sono dati oggettivi, come una foto istantanea, analogica, sgranata e reale con le sue particelle di sporcizia. Si noti la tenue speranza – il cigno bianco, un particolare che mi era sfuggito -. Lo consiglierei solo a lettori forti e preparati che abbiano buona conoscenza nel campo della letteratura sia vecchia che nuova, perché nel mio caso anche dopo una lettura più critica il testo qui letto non mi piace.
OT:
Una cosa che mi sono sempre chiesto è se la comunicazione fatta solo tramite la tastiera del computer possa oltrepassare le barriere di comunicazione con le persone che hanno abilità diverse di relazione. Mi sono immaginato che la comunicazione fatta solo tramite la tastiera del pc avesse la fortuna di dare un inizio ad un susseguirsi di successi cui sarebbero seguiti maggiori successi e maggiore soddisfazione, e quindi ulteriori input per acquisizioni di nuove abilità di relazione. Sono un visionario.
Che storia cruda e drammatica. Me la immaginavo proprio l’altro giorno una cosa così, che un racconto come questo finisse per errore in mano magari a due pensionati… Chissà le risate… Hanno ordinato un libro della Tamaro, però per sbaglio, per somiglianza dei titoli, viene recapitato loro un libro con questo e altri racconti, e loro dopo un primo imbarazzo, dopo aver deprecato le poste e quant’altro, piano piano, così avvicinandosi un pochino per volta, cominciano a leggere una storia ogni sera… poi vanno a dormire buoni buoni, perché ogni età ha le sue belle cose, e poi: gran finale! Una cosa un po’ boccacciesca, non è una novità, però nel ventunesimo secolo, chissà cosa ne verrebbe fuori.
Sono agrigentino ma abito in Brasile. Ho trovato il tuo incipit tempo fa e mi ha sorpreso per la vivacità boccaccesca (come dice un tuo acuto interlocutore) e per l’interpretazione original/verista della storia contorta dell’oscuro antenato dei santi antenati del Gattopardo. Lo riprendo adesso e mi piacerebbe di conoscere (gradirei una risposta direttamente al mio email)il seguito della storia anche perché da una decina di anno ho in mente (ed ho cominciato a) di scrivere il mio romanzo a ritroso della famiglia Corbera di Salina, Beata e nonno scannagente compresi. Nel frattempo, complimento per la verve e per i sicuri successi letterari. Butera
PS in questo momento sono per pochi giorni a Cincinnati OH, USA, ma potrò leggerti ovunque