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I sentieri delle ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso di Fabrizio Coscia
Il libro di Fabrizio Coscia sulle ninfe (o su Νύμφα, Nympha) principia con un suggerimento garbato e preceduto da un avverbio dubitativo: «Forse, scrive, per scongiurare questo pericolo, dovremmo semplicemente ritornare a guardare i quadri».[1] Il pericolo è quello dell’inflazione (orgia) delle immagini, che Paul Virilio[2] ha chiamato la «grande ottica» o anche «ottica attiva»: ciò che giunge, ovviamente, allo spazio della realtà virtuale, alla telepresenza, ma pure al restringimento dell’esperienza sensibile del mondo, «ciò che volgarmente chiamiamo l’altra estremità del binocolo!».[3] Allora è possibile tornare a guardare i quadri e tornare a guardarli con «lo sguardo dell’artista» (p. 10), e cioè di colui che ha visto ciò che ha rappresentato? (D’altra parte, «nell’opera è come soggetto, come sguardo, che l’artista intende imporsi a noi»).[4] In altre parole: è possibile tornare a guardare con la «piccola ottica» che «rende conto dell’immediata prossimità dell’uomo»?[5]
- Posizione un tantino ‘catastrofista’ quella di Virilio ma che ha il pregio dei metodi ‘revulsivi’. Forse – stavolta l’avverbio dubitativo lo utilizzo io; e butto lì questa mia affermazione quasi come una ‘provocazione’, una pro-vocazione, una chiamata –, forse per questo Coscia sceglie Nympha: Nympa che è, insieme, immagine (imago) e fantasma (φᾰ́ντᾰσμᾰ, visione, fantasia…), prossimità e distanza, être de fuite, per impiegare il dizionario amoroso di Proust (che Coscia utilizza), desiderio. Ora, ciò che qui non deve sfuggirci è che nella ricerca (caccia, pedinamento) di Nympha, sui suoi sentieri, l’uomo, e cioè il ricercatore, a) non conosce (abbastanza o per nulla) l’oggetto del suo desiderio che, difatti, con le parole di Didi-Huberman,[6] parole ‘rubate’ a Leiris, gli appare quasi come cosa in sé; b) e questa volta di nuovo con Lacan, «contrariamente all’animale», egli, il ricercatore, l’uomo, «il soggetto del desiderio che è l’essenza dell’uomo non è […] interamente preso da questa cattura immaginaria» poiché nella sua ricerca (caccia, pedinamento, contesa…) «si orienta»; e lo fa «nella misura in cui isola la funzione dello schermo e ci gioca. L’uomo, infatti, sa usare la maschera come ciò al di là della quale c’è lo sguardo. Lo schermo qui è il luogo della mediazione».[7] Teniamo ferme queste considerazioni: ci torneranno utili.
- Si è detto che il cercatore (l’innamorato) non conosce l’oggetto della sua ricerca (desiderio). La sua ricerca – e anche il nostro libretto – principia con alcune domande: «Chi è? Da dove viene? Dove l’ho incontrata prima?» (p. 10); domande che, lo scopriamo dopo (p. 91), sono di André Jolles – le domande che Jolles rivolge ad Aby Warburg in una lettera piena di fervore e che però costituisce un jeux d’esprit, come lo chiamò Edgar Wind .[8] Pur tuttavia si tratta anche di quella simulation du discours amoureux di cui scrive Barthes all’inizio del suo libro e che prevede le «choix d’une méthode ‘dramatique’».[9] Qualcosa che appartiene al gioco dello schermo (mediazione). Quelle domande ‘patetiche’ dunque fomentano la ricerca (caccia, sentiero, percorso, dis-cursus)[10] di Fabrizio Coscia. I sentieri delle ninfe si dipartono da quel punto come i raggi di una ruota dal loro mozzo. Ogni sentiero, il conte o l’avventura, la formazione, il desiderio e il sapere (del n0me, direbbe Carlo Sini) di (una) Nympha: la servetta del Ghirlandaio, Dora Markus, Marthe de Méligny (la modella di Bonnard), Albertine (Proust), Laura (Petrarca), Madeleine (Hitchcock), Euridice, Elena, Angelica (Ariosto). Infine, ma non ultima, L., la ninfa-musa dell’autore, cercatore fra gli altri, amoureux fra gli altri, giocatore masqué fra gli altri – e diligentemente assorto nella stesura di un libro: autoritratto di un uomo che riprende fiato. E sono sentieri, quelli delle ninfe, idealmente percorsi tutti simultaneamente e che solo la forma-libro, che non è quella del quadro e dello sguardo imposto d’emblée, restituisce via via. A ogni svolta o tappa o anche suspense, l’autore traccia un cerchio puntando il compasso in quel luogo iniziale, là dove sono sorte le domande ed è cominciato l’inseguimento; e il cerchio interseca tutti i raggi-sentieri. Dove si trova ora Lolita? E Dora Markus? E perché Marthe de Méligny, ora Maria Boursin, giacché Bonnard ne scopre il vero nome, perché non invecchia mai? Dov’è sparito Alfred Agostinelli (uno dei ‘conî’ di Albertine)? Un altro cerchio: come accade che le ninfe diventino dispensatrici di morte o di dolore come Sada Abe o Salomé o Lilith o la dama di Ketas o la Medusa (non più βιόδωϱοι, apportatrici di vita)? E ancora, come accade che muoiano o si eclissino o divengano altro o falliscano (Calipso)? Infine, che ne è della ninfolessia di Humbert Humbert? Che ne è del νύμφόληπτος (nymphólēptos) catturato dalle ninfe (s)fuggito al loro potere?
- Barthes scriveva: «L’appagamento vuol dire abolizione dei retaggi […] L’innamorato appagato non ha alcun bisogno di scrivere, di trasmettere, di riprodurre»;[11] Calasso[12] ci ricorda che nell’Etica a Eudemo il νύμφόληπτος appare là dove si tratta della εὐδαιμονία (felicità); più avanti[13] accenna alla felicità nella (della) μανία ερωτική, manía erōtiké, jouissance. Bonnard dipinge L’Homme et la Femme dopo l’amore, ci ricorda Coscia (p. 88 e sgg.). Qui è là (p. 37, p. 94, p. 110, p. 171, p. 177), nel suo discorso, che sta, secondo il sottotitolo, nei pressi di quello amoroso, compare la parola sublimazione – o vi si allude. Ovviamente si tratta della sublimazione dell’arte, nell’arte. E così l’arte testimonia, salva, consola, educa… Purché se ne sappia qualcosa: «Bisogna reimparare a guardare» (p. 163); bisogna «imparare di nuovo a vedere attraverso lo sguardo dell’artista» (pp. 9-10). Punto delicato che, di là dell’estetica, pone il problema di un riconoscimento dell’eredità e dei limiti di ciò che chiamiamo arte. Ma io tornerei al déguisement, alla maschera, allo schermo, (e cioè) al luogo della mediazione, perché è già lì che sorge, assieme all’uomo, autentica antropogenesi, il gioco, la schermaglia amorosa, l’artificio, l’arte. (E le preoccupazioni e i divieti, quella «metamorfosi vietata» di cui parlava Canetti)[14]. Scriveva Leiris nell’articolo menzionato di sfuggita da Didi-Huberman: «Il semble bien que l’homme, à peine a-t-il pris conscience de sa peau, n’ait rien de plus pressé que d’en changer, se précipitant tête baisée dans une excitante métamorphose»[15]. Ecco: non coscienza della propria pelle o della propria immagine, involucro esteriore, sembianza, giacché sappiamo tutti che il mimetismo è anche degli animali, ma sapere della propria immagine: e cioè parola, nome. Quest’ultimo punto vorrebbe dare risposta a una questione che Coscia solleva a p. 94: se la luce (o l’immagine) salva dalle tenebre, e cioè dall’oblio, è perché la luce e ciò che la luce illumina sono stati infine nominati.
- Dal notturno al diurno, dal volto caché (di cui troviamo un exemplum profondamente ambiguo nella maschera di cuoio fatta confezionare da Seabrook a New York che tanto colpì Leiris) al volto nudo, mobile, dalla parola esoterica a quella essoterica (didattica), dalla copula orgiastica a quella frasetta («He loved a lord») pronunciata da John Eglinton su cui René Girard ha scritto qualcosa di molto interessante (definendo la figura del mediatore, del ruffiano)[16], dalla μανία (manía), che verrebbe dal dio a σωφροσύνη (sophrosyne), che nasce dagli uomini, ecco un sapere che si fa, che si pratica. Sapere: una parola da declinare al plurale: si tratta di mito, di tragedia, di teatro, di arte, di letteratura, di filosofia… Ma ciò significa che il ritorno o la reviviscenza dell’antico (il Nachleben della ossimorica Pathosformel) è, se esercizio superstizioso che vuole salvare i contenuti, solo un’allucinazione. Insomma, Nympha giunge sino a noi, uomini del XXI secolo, uomini della grande ottica o dell’ottica attiva, telepresenti e ultraconnessi, come può e come sa. (Ciò che Coscia sa benissimo). E già la transiconografica dell’atlante warburghiano (Mnemosyne), montaggio di elementi eterogenei, eterocronici, immemoriali – lo pongo come un interrogativo –, non precorre una pratica dello sguardo che è già quasi la nostra?
Fabrizio Coscia, “I sentieri delle ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso”, pp. 191, 14,90 €, Exorma.
Giudizio: 5/5
Note
[1] F. Coscia, I sentieri delle ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso, Exorma, Roma, 2019, p. 9. D’ora in avanti i numeri di pagina saranno indicati nel testo.
[2] P. Virilio, La velocità di liberazione, Strategia della lumaca edizioni, Roma, 1997 p. 51.
[3] Ivi, p. 58.
[4] J. Lacan, Seminario XI, Einaudi, Torino, 1979 e 2003, p. 99.
[5] Virilio, Op. cit., p. 51.
[6] G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 10.
[7] Lacan, Op. cit., p. 106; si veda anche il bel commento di Carlo Sini in Le arti dinamiche. Filosofia e pedagogia, Jaca Book, Milano, 2004, p. 39 sgg.
[8] E come ci ricorda Roberto Calasso nel suo La follia che viene dalle ninfe, Adelphi, Milano, 2005, p. 39.
[9] R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux, Seuil, Paris, 1977, p. 8.
[10] «Originellement l’action de courir çà et là» ricorda Barthes (ibid.).
[11] Ivi, p. 31.
[12] Calasso, Op. cit., p. 24.
[13] Ivi, p. 29.
[14] E. Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 1981, p. 459 sgg.
[15] «Pare proprio che l’uomo, appena prese coscienza della propria pelle, non ebbe nulla di più urgente che di cambiarla, precipitandosi a capofitto in un’eccitante metamorfosi» (M. Leiris, Zébrage, Gallimard, Paris, 1992, p. 38).
[16] René Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano, 1998.