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Il patrimonio Roth
Vibrantemente intelligente e maturo, profondo e al contempo leggero, mai melenso anche se mosso da sincero amore (sebbene, sul finale, l’autore non si risparmi il senso di colpa per aver sfornato l’ennesimo libro parlando di persone e questioni private). Patrimonio, l’ultima fatica di Philip Roth, che ormai sforna romanzi di grande spessore come fossero noccioline e la cui personalità e cifra stilistica è, come per tutti i grandi scrittori, immediatamente riconoscibile (un mix di cinismo, anti-buonismo, schiettezza, retroterra ebraico e gusto per l’ironia sugli ebrei, voglia di stupire, orrore per qualsiasi tentativo di poetizzazione del quotidiano), è un romanzo – il secondo nel giro di pochi anni – sulla morte.
Questa volte, a morire, è il padre di Philip, Herman Roth, ottantaseienne che si ammala di tumore al cervello, e la cui lenta discesa verso l’agonia di una debilitazione progressiva e dolorosa è l’oggetto principale del libro. La morte di un padre novantenne, Roth lo sa bene, non è una tragedia, e si inserisce a pieno titolo nel normale corso dei fatti della vita. Ci si può anzi dire fortunati nel vedere il proprio genitore campare così a lungo: la longevità di chi ci ha messo al mondo fa bene, dà sicurezza, e nella maggior parte dei casi significa che chi ci ha creato ha avuto una vita non troppo dura, non troppo triste e anzi, magari, piena e soddisfacente (in genere chi vive male e infelicemente, a novant’anni non c’arriva): un insieme di caratteristiche che i figli sperano possano essere ragionevolmente replicate nella loro esistenza, con tutte le variabili di caso e destino.
Ma la morte del padre è comunque la morte del padre: con il carico di simboli e domande che si porta appresso. La materia di cui è fatto Patrimonio è infatti, principalmente, questa: non il dolore per la perdita, vissuta pacatamente perché, in effetti, Philip Roth non poteva sperare di avere un padre migliore, e perché il rapporto padre/figlio è ormai pacificato, risolto; ma l’esperienza simbolica e umana, universale, della perdita del padre. Nel libro c’è una scena molto bella in cui Roth (che in questo libro non si camuffa da Portnoy o Zuckerman, ma parla proprio di sè) è in un taxi e scambia due chiacchiere con il conducente, un energumeno tatuato e rude, che gli comunica (Roth per l’occasione finge di essere uno psichiatra) le sue angustie, dovute al suo pessimo rapporto coi genitori e in particolare col padre, che l’energumeno dice di aver odiato e di aver indirettamente contribuito ad ammazzare. Poi l’energumeno/parricida confessa a Roth di aver vissuto, e di continuare a vivere, una brutta vita. Il personaggio/Roth rimane assai colpito, e inizia a riflettere sulla diversità della sua situazione (nonché sulla sua fortuna). Lui il padre non ha mai avuto bisogno di ucciderlo, perchè il legame tra i due è stato bello: Herman ha fornito al figlio gli strumenti per crescere e per non aver bisogno, in definitiva, di ucciderlo sul serio o di rompere violentemente, ma di farlo fuori solo simbolicamente, diventando in grado di vivere la sua vita. Mentre il tassista, che il padre lo ha ucciso “realmente”, mai riuscirà a risolvere l’enigma insoluto della sua esistenza, destinato al rimorso e all’infelicità per non aver mai sistemato dentro di sé un tassello fondamentale.
E’ questo il tema centrale del libro: l’importanza dei Padri, del rapporto con essi, e il fatto che ciascun essere umano, per campare in modo decente, debba risolvere la simbolica del rapporto coi propri genitori. Non a caso il libro si chiama Patrimonio: che sta a indicare, ovviamente, non il patrimonio materiale lasciato da Herman Roth ai suoi figli (esiguo, e comunque intrinsecamente insignificante), ma quello morale, spirituale, affettivo, di insegnamenti: la cui ricchezza è inestimabile.
4.02.2008 4 Commenti Feed Stampa
4 Commenti
CommentaGiovanotto,
non le nasciondo che leggendo questo libello mi sia commosso: il ricordo di papà Alfiero mi ha travolto come l’uragano bOb…
Quasi quasi mi sono pentito di aver chiuso la porta in faccia a quel Roth lì: anche i geni talvolta posso sbaliare…
cordialmente,
Cav. Marcello Stacchia
Cavaliere, quando si ha un catalogo come il suo mica facile aprire la porta a certi principianti!
Cordialmente
Attenzione, non che cambi nulla, ma in realtà ‘Patrimonio’ è uscito originariamente nel 1991, solo che solo ora Einaudi ha deciso di pubblicarne traduzione italiana.
Hei, hai ragione. Non so perchè ma ero convinto fosse un nuovo libro. Infatti non mi tornavano certe date (Roth nel libro si riferisce spesso all’anno 1987). Beh, comunque non cambia molto il senso di questo post, ma thanks per la giusta correzione.