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La terra del fuoco
Sotto un cielo di cenere, davanti a un sole malato come un grande glaucoma spalancato sul mondo, un uomo e un bambino arrancano in mezzo al fango e alla neve trascinando un carrello. L’apocalisse non è ancora arrivata, Cormac McCarthy sì.
Si chiama La strada l’ultimo prodigioso libro dello scrittore premio Pulitzer. Come nel più classico dei road-movie, o dei road-book, due uomini attraversano un territorio sconfinato diretti a sud. Solo che stavolta non sono due cow-boys, ma padre e figlio, e davanti a loro non hanno praterie sterminate, ma paurose macerie di un mondo postatomico. Riverberi lontani di città in fiamme, picchi innevati, foreste di alberi morti, lande desolate battute dal vento e da terrificanti bande di predoni cannibali, muti deserti di carcasse, spiaggie rilucenti di milioni di ossa e lische, e un oceano freddo e nero che si muove come materiale radiattivo in una vasca di stoccaggio. Sembra di leggere Omero ma è McCarthy, sembra di avere tra le mani Elliot (“Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano/Su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata” T.S. Eliot, The Waste Land), ma è sempre McCarthy, sembra poesia e invece è prosa.
E i suoi personaggi senza nome, “uomo” e “bambino”, non sono personaggi, sono due archetipi umani, eroi tragici in lotta per la sopravvivenza in un mondo più feroce della natura. Ma la violenza dei libri di McCarthy non è mai gratuita ma simbolica, antica come la Bibbia e moderna come l’America di Bush.
Non ho parole per descrivere il libro di McCharty, perché dopo aver letto questo libro ci si sente in colpa per ogni parola in più che si adopera. Stavolta il lavoro di sottrazione sulla lingua è talmente estremo che il linguaggio regredisce ad uno stato primordiale, come i pochi sopravvisssuti sulla terra. La lingua si fa ossidiana, punta acuminata di selce, utensile mirabile e perfetto nella sua elementarità. Il lessico antico e potente come una preghiera. La prosa scarna e sincopata, brevi paragrafi separati da stacchi, come graffiti sulle pareti della pagina. Il paesaggio si decompone per tornare agli elementi primari: acqua, aria, terra, fuoco. Il correlativo interiore è il paesaggio degli istinti primitivi – il coraggio, la paura, l’amore, la ferocia – che muovono l’antica danza dell’uomo eternamente sospeso tra la vita e la morte.
Io ho pianto, ho pianto e ho tremato e ho gioito ad ascoltare il canto disperato di un padre e un figlio che custodiscono il dono del fuoco, e tramandano quello della civiltà, che forse si estinguerà con loro.
La strada è un libro che fa giustizia di scaffali di libri mediocri e precipita legioni di scrittori nei gironi dell’autocommiserazione. La strada fa sparire tutto, perché quando lo leggi c’è solo quella maledetta strada, quell’uomo e quel bambino. La strada è un grande libro perché è un libro universale, che parla all’uomo per mezzo dell’uomo. Non devo sapere niente per leggerlo, devo solo saper leggere. E non è solo un libro ma anche un rito, e l’unico requisito per partecipare è vivere.
Nell’undicesimo Libro dell’Odissea l’indovino Tiresia predice l’intero viaggio ad Ulisse: ma la storia del Re di Itaca non terminerà con la strage dei Proci. Egli riprenderà il mare, sbarcherà e camminerà portandosi un remo in spalla, e incontrerà genti che non conoscono il mare e che non adoperano il sale, finché sulla sua strada troverà un viandante che scambierà il remo per un ventilabro. Solo allora dovrà piantare il remo in terra, e dopo aver sacrificato un verro un ariete e un toro agli Dei, potrà finalmente fare ritorno alla sua reggia e morire di muta vecchiezza e i popoli vivranno in pace. Quel remo piantato in mezzo al deserto è il confine dell’epos, oltre non c’è racconto, ma sabbia e silenzio.
Mentre leggevo La strada e seguivo quelle figure avanzare su quelle plaghe inospitali, ho immaginato che il viandante della profezia di Tiresia fosse il viandante che compare alla fine de La strada.
In ogni caso, Ulisse può star sicuro che ci penserà McCharty a raccogliere quel remo, e a ficcarlo nell’occhio di qualcuno.
27.09.2007 7 Commenti Feed Stampa
7 Commenti
CommentaIl riferimento a Eliot mi riporta ad un altro libro di McCarthy: “Non è un paese per vecchi”. Anche lì si riscontra un forte legame tra poesia e prosa. Un legame che si manifesta subito nel titolo, visto che “… non è un paese per vecchi” fa parte proprio del primo verso della poesia di Yeats “Sailing to bysantium”.
Non sapevo che “no country for old man” era il verso di una poesia di Yeats, grazie di avermelo segnalato Wilmer. Oltre a confermare la deriva della prosa di McCarthy verso la poesia, mi sembra che molti libri recentemente per i titoli attingano alla potere immaginifico della poesia, o delle canzoni. Mi viene in mente Marias (Domani nella battaglia pensa a me), ma ce ne sono tanti altri.
…Tra gli altri anche Sandro Veronesi. Per dare il titolo al suo romanzo “La forza del passato” ha ripreso la parte finale del primo verso di una poesia di Pasolini (ecco qui: Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore.).
Bella presentazione i un libro che non ho ancoa avto il tempo di leggere, ma che senz’altro leggerò, grazie Giulia
Sì, certo Veronesi.
Poi c’è il film “Se mi lasci ti cancello”, titolo originale “The eternal sunshine of the spotless mind”, quiz: quale dei due titoli è tratto da una poesia di Alexander Pope?
P.S. Che voi sappiate anche Grossman “Che tu sia per me come il coltello”, rientra nei titoli poetici?
Il titolo più bello di tutti: “L’inverno del nostro scontento”.
Con ben altri toni (ma è un po una mia fissa curiosare fra le letture degli altri, anzi diciamo meglio, confrontare le mie impressioni con quelle degli altri, per leggere ciò che non ho saputo leggere). Questo romanzo mi ha fatto male. Ne parlo (se vorrai leggermi) in questo sito qui