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Come Dio comanda (un’apologia)
Come Dio comanda mi ha stupito per alcuni motivi.
Provo a elencarli, in ordine sparso e del tutto non-organico: non sono un critico, prendete quelle che seguono come le impressioni di un lettore qualunque.
Dunque. Primo: era tanto che non mi capitava di non vedere l’ora, letteralmente, di riaprire il libro per continuare la lettura. Questo mi è successo con Come Dio comanda dalla prima all’ultima pagina. Ed è il miglior complimento che si possa fare a un romanzo, mi pare.
Secondo: Niccolò Ammaniti parla di un mondo raccontato, con apocalittica angoscia e senso di estraneamento, da Aldo Nove (e da molti altri: ma Aldo Nove fa al mio scopo): cioè parla della ricca provincia del nord-Italia, di luoghi (apparentemente) privi di storia, fatti di (impersonali) strade tangenziali, di (impersonali) capannoni, di (impersonali e cannibaleschi) shopping center che sorgono come cattedrali nel deserto a intervallare i capannoni e le tangenziali; e parla della gente che il ricco nord-est lo abita: perlopiù persone incolte, grette e intristite dalla nebbia e dal logorìo della vita moderna.
Ho citato Aldo Nove perché Aldo Nove fa una cosa che a me piace (piacque) molto, ma che per certi versi mi ha stancato, forse perché nichilista e il nichilismo, notoriamente, è amato soprattutto dagli adolescenti e io non sono più adolescente: di fronte a capannoni tangenziali shopping center eccetera, Aldo Nove si mette in una condizione di impotenza, rinuncia a raccontarci la gente e intensifica il racconto di sé e del suo disagio.
Un po’ come fa Foster Wallace, che, troppo occupato a raccontarci del suo spleen da ipersensibile, si dimentica di buttare uno sguardo all’Altro (il quale Altro, magari, la vita moderna se la gode pure, tutto sommato).
Invece Ammaniti fa altro: in Come Dio comanda i capannoni le tangenziali e gli shopping center continuano a essere quei simboli di perdizione della modernità, ma Ammaniti guarda al di là e decide di parlarci sul serio della gente che lì ci vive. E la gente che lì ci vive, evidentemente, non è tutta Zombie Alienati Che Corrono Appresso All’Ultimo Modello Di Cellulare: gli abitanti del nord-est, come tutti gli esseri umani, provano sentimenti, desideri, dolori, hanno psicologie complesse o imbecilli, hanno avuto un’infanzia, hanno subìto traumi, si innamorano, piangono, e insomma fanno un sacco di cose che numerosi scrittori hanno deciso di nasconderci, per narrarci invece quanto è dura e profonda la loro percezione dell’alienante anno 2007.
In Come Dio comanda, dunque, ci sono teen-agers un po’ puttanelle che però in fin dei conti non sono tanto felici di essere teen-agers puttanelle e che invece subiscono l’immagine che si sono cucite addosso, pur di stare in un gruppo e acquisire identità; e ci sono assistenti sociali pieni di problemi che si affezionano ai loro assistiti; e ci sono nazisti che alla fine uno fa quasi il tifo per loro, perché sono talmente imbranati e inconsapevoli e teneri e per nulla minacciosi e in fondo buoni che qualunque lettore (e si consideri che sono ebreo) non può non fare il tifo per loro (l’estremismo come scelta in definitiva anarchica e apolitica di rifiuto per tutto); e ci sono storie d’amore di un comico pazzesco, e storie di pazzìa narrate come solo il figlio di uno psichiatra poteva fare; e c’è un sacco d’altra roba.
Il risultato è che ti affezioni a tutti i personaggi e non vedi l’ora di sapere dove cavolo andranno (andrà Niccolò Ammaniti) a parare alla prossima pagina.
Terzo: in realtà il giudizio di Ammaniti su questa cazzo di modernità c’è, ma è molto lieve. E’ una frase. Precisamente, questa (pag. 137):
“Potevi trovare tutto ciò che desideravi: lo sportello bancario del Monte dei Paschi, punti vendita Vodafone e Tim, un ufficio postale, la nursery, i magazzini di vestiti e scarpe, tre parrucchieri, quattro pizzerie, una vineria, un ristorante cinese, un pub irlandese, una sala giochi, un negozio di animali, una palestra, un centro analisi mediche e un solarium. Mancava solo una libreria.”
Ma è l’unico punto (mi pare) in cui N.A. si lascia andare alla critica (snob) di tangenziali capannoni & co. Per il resto, è tutto un partecipare delle pazzesche vicende della banda di matti che sono i protagonisti del libro.
Quarto: i protagonisti dei libri di Ammaniti sono spesso bambini o adolescenti, e anche qui il personaggio principale (nonostante Come Dio comanda, romanzo assolutamente corale, non abbia un vero e proprio protagonista) è un adolescente.
Ammaniti ci parla spesso di adolescenti per un semplice motivo: che è davvero bravo a farlo. Cristiano Zena, questo ragazzino che invece di deprimersi a causa delle (innumerevoli: è una specie di Giobbe in età prepuberale) avversità della vita, reagisce e lotta per (grazie a) l’amore per un padre assurdo, è un personaggio vivissimo, commovente, pieno di pensieri e di emozioni – nonostante i capannoni e le tangenziali e gli shopping center. Chapeaux: assieme a suo padre, è il personaggio più riuscito e umano del libro.
Quinto: (quasi) una critica. Come già mi era capitato di notare negli altri libri di Ammaniti, l’autore non ha alcun intento pedagogico. Cioè: non vuole spiegare, nè tantomento imporre, un senso, una visione delle cose e della vita. Lui racconta, e poi sta al lettore giudicare (e anche codificare: Come Dio comanda è un gran libro e molte scelte, nella trama, non sono casuali, ma dettate da una riflessione, se non filosofica, quantomeno assolutamente ragionata).
Però, ecco, se proprio devo trovare un neo a questo romanzo, è la sensazione che in fin dei conti, dopo l’impetuoso scorrere della narrazione, dopo che è successo di tutto e dopo che ogni paragrafo è stato cucito di fino in quanto tassello di un mosaico che davvero mi vien da definire – in sé – perfetto, manchi quella nota che giustifichi, almeno un po’, le scelte dello scrittore e quanto succede nella trama.
Insomma, una specie di teoria che mi suggerisca che tutto ciò che avviene in Come Dio comanda non sia gratuito. Ecco.
So che è una strana necessità di lettore…
Anche se a ben pensarci, poi, tutto scorre in modo talmente armonioso, in questo romanzo, che anche l’assenza di un significato esplicito deve essere una scelta del grande (e consapevolissimo) narratore Ammaniti.
18.04.2007 38 Commenti Feed Stampa
38 Commenti
Commentaviene voglia di leggerlo.
è da un po’ che è sullo scaffale. In attesa. Adesso mi hai proprio fatto venir voglia di spostarlo sul comodino. Grazie
si legge in due giorni, e’ sostenibilmente leggero
L’ho trovato veramente brutto, squallido, inutile.
però, marco, non sono d’accordo con la valutazione che dai di DF Wallace,
“Un po’ come fa Foster Wallace, che troppo occupato a raccontarci del suo spleen da ipersensibile, si dimentica di buttare uno sguardo all’Altro”
Be’, il miglior DF wallace crea mondi (e mondi si creano attorno alle sue opere, basti pensare all’elenco dei caracters su wiki per Infinite Jest e anche ad un riassunto scena per scena sempre di IJ reperibile sul web) altro che solipsismo: IJ è pieno di altri.
Davide: so’ gusti.
Ferrigno: io AMO DFW, ho letto quasi tutto, però è un fatto che sia uno scrittore concentrato sui lati “a disagio”, nevrotici, della società. Era questo che intendevo.
DFW merita un posto nel mio personale gotha già solo per il racconto “Lyndon”.
ma te pareva!!!!
Lucy
No, non so’ gusti. Quel libro è monnezza vera. Ha delle pretese di scavo sociologico che sono scandalose. Allora meglio il primo Giallo Mondadori raccattato in edicola, meglio le barzellette di Totti, veramente.
a me Ammaniti piace. Tra gli scrittori italiani è uno dei miei preferiti. Come Dio Comanda, però, mi sembra una sintesi di un romanzo. Una specie di bignami.
Io questo Ammannito non lo conosco, non ne so parlare se è monnezza o meno no. Però Malesi, quello si che è uno scrittore, altrocchè. “Veramente difficile ripetere il medesimo strataggemma” già dal titolo uno capisce che è nu capolavoro che manco Faletti (il mio scrittore preferito).
Davide, non è che c’hai la verità in tasca.
Per me, continuano a essere gusti.
Altra gente oltre me ha detto che è un buon libro: la Lipperini, Filippo La Porta, per dirne due.
Oltretutto, dire “ha delle pretese di scavo sociologico che sono scandalose” mi sembra avercela messa tutta, pregiudizialmente, per non capire il libro: secondo me, proprio il lavoro di Ammaniti sulla rappresentazione della società è la cosa interessante di Come Dio comanda.
Marco, non ti sembra scandaloso piuttosto mettere le mani nelle tasche di Davide? Vergogna!
Mah, conosco Davide da un pezzo e so che di libri ne mastica piuttosto e anzichenò. Infatti non ho capito il giudizio tranchant su un libro che secondo me è oggettivamente errato classificare come monnezza.
Io non ho sicuramente la verità in tasca, Marco. Però, prima di dire che lo scavo sociologico di “Come Dio comanda” ha un qualche valore, occorrerebbe forse leggere non dico mille, ma giusto un paio di libri che lo scavo sociologico lo fanno davvero, e che rappresentano modelli riconosciuti del genere (i primi che mi vengono in mente, e che sono pure abbastanza recenti: “Una famiglia a caso” di Adrian Nicole LeBlanc, “L’ordine è già stato eseguito” di Alessandro Portelli).
(così uno capisce dove sta la differenza)
Hei, grazie per il suggerimento sui libri da leggere!
Puttanaccia ragazzi, non iniziamo col discorso del Pantheon.
Dove ognuno sistema le sue divinità.
Sennò dopo aver sdoganato Craxi tra un po’ santificheremo anche Andreotti (E Faletti).
P.S. Se la mettete così allora anch’io – per non essere da meno – ho il mio livre de chevet che scava a fondo e indaga la società italiana. La prima parte de “L’elenco telefonico di Atlantide” di Avoledo è un inedito affresco della classe impiegatizia italiana. Sullo sfondo, nebbia e nordest.
spezzo una lancia sulla testa di Malesi (che non ne abbisogna, ad ogni modo)
Vorrei far presente che, a detta dello stesso ammanniti, l’unico rapporto che egli ha con le zone che nel romanzo fanno da location alla storia è stato “esserci passato in treno e averle viste dal finestrino” (citazione tratta da intervista alla trasmissione “che tempo che fa”, dopo la quale l’autore e il conduttore hanno assunto posa meditabonda e pietosa circa le triste sorti di questi poveretti che non vivono in centro roma/milano, noblesse obblige).
Ora, uno può anche fidarsi delle proprie sensazione di pelle, ma dovrebbe sapere che la possibilità che esse riproducano piuttosto luoghi comuni assunti da varie fonti (ad es. tutta la pubblicistica pseudo-socio-giornalistica di terz’ordine che intasa i giornali da quel dì su “il nord”) è una possibilità molto alta.
Intendiamoci, creare mondi fittizi sulla base di sensazioni è un’ottima cosa; l’equivoco grossolano, in cui incorre lo stesso ammanniti circa la propria opera, è però trasportare queste invenzioni sulla realtà e usarle come filtri, fare delle proprie invenzioni un testo “realistico”. È questo realismo fasullo, da reportage “in presa diretta”, santoristico, questa idea molto televisiva della realtà, che non può che far un po’ incavolare chi nella “provincia” ci vive e non si sente per nulla ben rappresentato.
In generale, diretti interessati a parte, non può che far un po’ incavolare chiunque ami il realismo come approccio alla narrazione.
Il discorso è lungo, e mi dispiace se i toni si sono fatti un po’ aggressivi (mi dispiace di esserlo stato con Davide, perchè credo che sotto certi aspetti io e lui siamo sulla stessa barca).
Io non ho mai detto che “Come Dio comanda” è un trattato di sociologia, nè che sia un libro realistico (è tutt’altro: è grottesco e splatter e fantastico e comico). Per fare i trattati di sociologia esistono i sociologi, il cui mestiere è studiare la società e fare della pubblicistica in merito ai loro studi. Non è certo roba da scrittori: che ovviamente la società la raccontano, ma da una specifica angolazione, senza alcuna pretesa di completezza o puntualità accademica (o almeno non dovrebbero averne) (gli scrittori, tutt’al più, possono rientrare nell’ambito di studi della sociologia, in quanto espressione dello spirito di un tempo o di un luogo, per dirne una.)
A me quello che è piaciuto del romanzo di Ammaniti l’ho spiegato nel post. Il nord (e, per esteso, i cosiddetti non-luoghi d’occidente) è raccontato senza la rassegnazione “postmoderna” e depressa di molti autori italiani (Tiziano Scarpa, Aldo Nove, la “scuola wallaciana” di minimum fax), ma con la semplice voglia di parlare di gente comune, perlopiù sfigata, che in quei luoghi si trova a vivere e combattere.
Ho trovato le psicologie dei personaggi per nulla rozze, la storia avvincente e commovente, alcuni spunti davvero geniali. Io non so se l’avete letto – Davide sicuramente sì – ma il fatto che uno scrittore riesca a rendere interessanti e vivi personaggi triviali in ambientazioni spesso squallide mi piace. Mi piace già come fatto in sè, come scelta del soggetto da narrare, a prescindere dagli esiti (che sono opinabili, visto che per esempio a voi non piace) (visti anche i soggetti – intesi anche come soggetti scriventi – ombelicali o superchic di cui sparliamo da anni sui nostri blog).
Lo scrittore Ammaniti, a mio modesto avviso, meriterebbe ben di più di un post su questo o quel blog, perchè è uno dei pochissimi autori italiani di ampio respiro, capace di scrivere storie dall’architettura ottimamente congegnata (“Io non ho paura” per me è un altro ottimo libro. Gli altri un po’ meno), dotato (altra rarità) di una personalità molto definita e riconoscibile, di una penna efficace, egocentrico poco o nulla, presenzialista poco o nulla, e capace – cosa non da poco – di scrivere libri che mettono d’accordo masse e (spesso) critica.
Poi, per carità, può non piacere.
Però ecco, liquidarlo con quattro parole disgustate mi sembra davvero ingeneroso (e non prendo nessuna percentuale per dire ‘ste cose, giuro).
Marco, nessun vuol metterti in croce. Ma se il libro non è “realistico”, allora non può voler descrivere una realtà esistente, bensì una immaginazione che sta tutta in testa ad Ammaniti.
Che gli scrittori debbano raccontare la realtà “da una specifica angolazione, senza alcuna pretesa di completezza o puntualità” poi, Marco, mi pare proprio una cazzata. Gli scrittori realisti sono in genere ossessionati da completezza e puntualità. Zola si è messo addirittura a scrivere un ciclo in cui voleva dare un’affresco completo della società francese del suo tempo. Proust era così ossessionato dal realismo dei dialoghi da riprodurre in ogni dettaglio persino i tic dei personaggi dialoganti, con descrizioni puntigliosissime. Balzac nel mezzo di un suo romanzo si mette a raccontare con abbondanza di dettagli la storia della stampa, dalla Cina alle tipografie di Parigi. Tolstoj nel mezzo di un suo romanzo si mette a raccontare con abbondanza di dettagli l’organizzazione di un reggimento di artiglieria. Una parte cospicua de “I detective selvaggi” di Roberto Bolano è dedicata alla descrizione realistica del mondo dei poeti e letterati latinoamericani. Per non parlare di certe puntigliosissime descrizioni di Georges Perec (e potrei continuare molto a lungo).
Va benissimo che Ammaniti scriva un libro non realista, per carità: ciò che a me dà fastidio, è che mi venga spacciato per un libro realista, che mi racconta uno spaccato di un mondo che esiste, quando in realtà quel libro racconta qualcosa che sta nella testa di Ammaniti, e basta.
Allora: gli scrittori non sono dei sociologi e, dunque, descrivono la società quanto vogliono ma il loro lavoro, per quanto puntiglioso, non può essere paragonato alla sociologia. Gli scrittori sono artisti, i sociologi sono scienziati. Gli scrittori esprimono un punto di vista soggettivo, la scienza prova ad eliminare l’arbitrio.
E quindi, quando dico: “da una specifica angolazione”,
intendo da un punto di vista morale, artistico, ideologico, progettuale, che può essere raffinato e vicino al vero quanto ti pare, ma che non può essere preso come uno studio sulla società.
Sull’Ammaniti realista: certamente non lo è, uno scrittore realista. Io però intendevo che è notevole e bello il modo di Ammaniti di porsi di fronte a un modello di società spersonalizzante (ai fin troppo citati non-luoghi: che siano l’Italia profonda o l’America profonda o il Belgio profondo) ed è bella la vitalità che riesce a infondere a personaggi trattati da molti scrittori solo come carne da macello, consumatori da rimpinzare e basta. Questo Ammaniti riesce ad esprimerlo – la risposta vitale di gente mai o quasi mai raccontata da scrittori italiani – pur non utilizzando un registro realistico (che non gli appartiene).
Questo intendevo. Forse una frase nel mio post era fuorviante, ma questo era ciò che intendevo esprimere.
(Calvino, con “Il sentiero dei nidi di ragno”, ha parlato della Resistenza in modo superbo, e ce l’ha fatta capire meglio di altri, utilizzando il punto di vista delicato e sognante di un bambino.
Ora, il paragona non s’ha da fare.
Però quello che fa Ammaniti nel libro, realistico o no, rimane interessante.)
Ah. Già che ci sono, segnalo questo articolo di Paolo Nori, in cui vien fuori – in modo così chiaro da risultar cristallino – come e perché la prosa di Ammaniti non ha niente a che vedere con la realtà, manco per procura.
@davide: ho editato quest’ultimo commento, mettendo il link alla voce “questo articolo”. Il link che avevi messo, infatti, era troppo lungo e sballava la formattazione della pagina.
ecco, quando sostenevo che la realtà presente in questi romanzi è prevalentemente televisiva (persino nel senso che basta uno pseudo-schermo come il finestrino di un treno a simularla, come citavo sopra) e quindi costruita su tic da fumetto cattivista o cannibalista o da film con effetti speciali, tutta scoppi e digrignar di denti, o luoghi comuni da pubblicistica ad effetto sulle periferie abbandonate a se stesse (appunto i non luoghi, questa colossale minchiata che si fa passare per sociologia), avevo in mente quel che Nori ritrova esplicitamente nello stile.
Come ho già detto sopra: questo non è un giudizio di valore letterario – che non so nemmeno cosa sia – si può fare grande letteratura con qualsiasi materiale, e inoltre non so proprio come superare l’immortale “de gustibus”, per cui non intendo minimamente discutere il piacere che tu hai provato nel leggere.
trovo solo errato, dal punto di vista dell’approccio critico, leggere questi romanzi (ci metto anche il precedente di ammaniti) come “un modo di porsi verso un modello di società spersonalizzante”. Al limite accetterei se si intendesse “un modo di porsi verso un certo tipo di immaginario tutto proprio di un milieu culturale-sociale”, quindi un’operazione tutta interna, autoriferita, ampiamente autoreferenziale (e di cui, in questo caso, ma qui è solo un’opinione personale, appaiono evidentissimi i limiti, differentemente da quanto accade con wallace che proprio questo fa con ben altro spessore).
b.georg: “si può fare grande letteratura con qualsiasi materiale, e inoltre non so proprio come superare l’immortale “de gustibus””, dammi il cinque, condivido in pieno.
In merito a:
“appunto i non luoghi, questa colossale minchiata”.
La definizione come sai è di Marc Augè, e io non la ritengo una cazzata pazzesca (sebbene citati a sproposito da qualunque lettore di Repubblica), ma una buona formula per definire un aspetto del mondo che viviamo. Ma dove lo prendete questo vizio snob di sparare a zero su tutto? Insomma, tutti quanti dicono colossali minchiate o scrivono libri di merda o fanno film di merda?
In merito a:
“trovo solo errato, dal punto di vista dell’approccio critico, leggere questi romanzi (ci metto anche il precedente di Ammaniti) come “un modo di porsi verso un modello di società spersonalizzante”.
Ripeto: ciò che intendevo e che forse nel post è passato solo in parte, è che mi è piaciuto l’approccio non apocalittico, ma vivo e vitale, alla modernità, all’occidente industrializzato e ricco (e dunque, anche al nord Italia). Ammaniti avrebbe potuto ambientarlo in mille posti d’occidente, ha scelto il nord, di cui saprà anche poco e amen: ma a mio avviso è notevole il suo modo di descrivere la gente, i giovani (per esempio, l’amicizia tra le due teen ager: vera e propria perla del libro),
la cultura di massa, anche i luoghi comuni così disperanti che aleggiano in mille descrizioni deprimenti del nord.
Provo a spiegarmi ancor meglio: mi piace l’approccio umano (di scrittore) di A. nei confronti del mondo moderno, che è un approccio vitale, non nevrotico, creativo, invece che deprimente, logorato, arrendevole. Non credo si debba per forza essere stati a Milano 2 per approcciare il mondo in qualche modo.
premetto che il cinque è ben accetto e confermato: si può leggere un testo in modi molto diversi, e non pretendo di farti cambiare idea ma solo di spiegare la mia (anche a me stesso)
su augé: non sono così arrogante, c’è una vasta letteratura che sostiene che quella dei non luoghi è una trovata glamour ma assai poco convincente e utile. il mio limite semmai è preferire una sociologia razionale e quantitativa a una filosofeggiante e parolaia (alla stessa stregua potrei sostenere analogo snobistico giudizio su bonomi, che imperversa da anni su giornali e tv con le sue pittoresche descrizioni sociologiche sui mutamenti sociali del nord italia, costruiti su basi di dati come minimo impalpabili)
sul resto: il punto non è come approcciare il mondo (fatto per cui essere nati a milano 2 non aiuta di certo, almeno suppongo :) ) ma come approcciare la narrazione.
mi pare permanga una differenza di valutazione sull’oggetto del romanzo di ammaniti, che per me non è la modernità (come non era il sud nel precedente), ma è un paesaggio tutto interno, costruito con un mix di elementi pop e semi-colti, di tic culturali (in fondo ancora lo stesso materiale di quando era “pulp”, solo un po’ depurato), che un approccio tutto “di ispirazione” con la realtà fa scatenare ed emergere in forma di storia: passo col treno e mi immagino la vita in quelle case. Ovviamente questo approccio alla narrazione – un po’ stile “poesia sul tramonto” – presume che quelle vite sgorghino tutte da me, apparentemente come creazione ex nihilo, in realtà come attivazione di dati e informazioni e modi di dire e vedere precedentemente assorbiti e sedimentati. Il che va benissimo di per sé, se l’autore lo sa e opera uno sguardo consapevole e una adeguata torsione di questi materiali e li presenta come tali. Forse si può arrivare a scrivere addirittura storie “universali” in questo modo, e fa niente se quel sud (o quel nord) è oleografico, inesistito, puro pretesto. Va meno bene, imho, se pretende che la sua narrazione dica qualcosa su quelle vite o quelle case o “sulla modernità”.
Il fatto che siano scelti spesso protagonisti bambini o bollitoni, cioè personaggi molto tipizzabili, con pochi vincoli di caratterizzazione verosimile, facili al clichè (e qui non condivido il tuo giudizio su come tratta i personaggi) è imo un sintomo di questo fatto.
Guarda che io molto della tua analisi lo condivido. Ad ogni modo:
“mi pare permanga una differenza di valutazione sull’oggetto del romanzo di ammaniti, che per me non è la modernità (come non era il sud nel precedente), ma è un paesaggio tutto interno, costruito con un mix di elementi pop e semi-colti, di tic culturali (in fondo ancora lo stesso materiale di quando era “pulp”, solo un po’ depurato)”
Io non ho mai detto che l’oggetto del romanzo di Ammaniti sia l’analisi della società. L’oggetto del romanzo di Ammaniti è la storia narrata: ciò che avviene e ciò che fanno i personaggi. Se mi permetti, non è neanche un paesaggio tutto interno – cioè, lo è, ma nella misura in cui lo è qualsiasi storia di qualsiasi scrittore.
Il mio discorso sulla società, e più precisamente sulla modernità, era comparativo: dicevo che visto il modo di molti autori di approcciarsi al mondo d’oggi (il modo depresso, come già detto), mi piace la vitalità che Ammaniti imprime ai suoi personaggi nell’affrontare la vita.
Non condivido invece il tuo giudizio sui personaggi. Per quanto talvolta fumettistici, non trovo siano semplici “caratteristi”. Trovo che la follia di Quattro Formaggi sia credibile, narrata con profonda lucidità e ben rappresentata;
che le due sopra citate teen agers siano davvero ben delineate, soprattutto è interessante il processo mentale e il dubbio sulla vita della ragazza che poi farà una brutta fine;
il rapporto tra padre e figlio non è banale (anche se forse si poteva fare di meglio);
complessivamente non trovo che sia un romanzo strutturato su dei clichè narrativi o psicologici così smaccati.
Ma senti, a questo punto entra in gioco il famoso “de gustibus” :), ed è noto che il corollario alla regola del de gustibus è “non se ne esce”.
L’oleografia spesso la fanno anche gli scrittori che vivono in prima persona la realtà che narrano. A volte il paesaggio interiore dello scrittore X svela più cose del paesaggio esteriore dello scrittore Y. A volte bastano poche intuizioni narrative. E tutte le chiacchiere di questo mondo non hanno la stessa forza (di svelamento, di rappresentazione, di sofisticazione, boh, da lettore non privilegio nessuna di queste polarità, e forse anche da scrittore le vedo fondersi insieme) di queste poche intuizioni narrative. A me spesso dello scrittore non interessa nulla. Anzi spesso evito di conoscerlo. Non me ne frega niente. Rimango deluso. Rimango deluso da me stesso, pensa dagli altri.
“A volte il paesaggio interiore dello scrittore X svela più cose del paesaggio esteriore dello scrittore Y. A volte bastano poche intuizioni narrative.”
Sottoscrivo.
“Ma dove lo prendete questo vizio snob di sparare a zero su tutto? Insomma, tutti quanti dicono colossali minchiate o scrivono libri di merda o fanno film di merda?”. Bravo Marco. Io almeno, nonostante occasionali deliri di onnipotenza, cerco di risparmiarmi certe sparate…pur avendo una lunga cartuccera piena della serie (per citare mio padre): “Magritte è un bravissimo illustratore ma un pessimo pittore…” Pensa che una volta ho discusso con uno che diceva che “Godzilla” faceva cagare…Ma io dico, non ti accontenti di vedere per la prima volta nella tua vita un enorme salamandra incazzata che distrugge New York, e preferisci rompere i coglioni perchè la sceneggiatura non è sublime e non si presta a interpretazioni filosofiche sul senso della vita?! Ma cosa minchia ti aspetti?! O ancora, se devi rompere i coglioni a Muccino, perchè vai a vedere i suoi film? Perchè figliuolo…perchè?!
Scusa lo sfogo. Solidarietà a te Marco.
C’è gente che non c’ha mai ‘na parola ‘bona per qualcuno, sembra uno sport nazionale: sempre a criticare lo scrittore, il regista, lo sceneggiatore, l’artista di turno: e che cojoni!
“e preferisci rompere i coglioni perchè la sceneggiatura non è sublime”
“e che cojoni!”
mi par di capire che c’è un problema di testicoli :)
voglio rassicurare, per quel che mi compete: ci sono un sacco di cose che mi piacciono. purtroppo non ammaniti e augé :)
capisco anche la raffinatezza dell’argomento “se non ti piace perché lo vai a vedere/ne parli?”; purtroppo alle volte, specie nei blog, ci si lascia prendere dal perverso piacere dell’inutile
non mi pare tuttavia di aver detto che “tutti quanti dicono colossali minchiate”. ho espresso al contrario un giudizio personale su due cose specifiche – questo libro, e l’idea di non luoghi. Mi pare di aver argomentato a sufficienza nel primo caso (con un risultato di sostanziale patta, direi); nel secondo no, perché era un po’ OT, ma posso farlo se lo si desidera, e senza alcun “delirio di onnipotenza”: semplicemente credo – non per particolare genialità mia, ma perché è quello che sostengono in molti – che quell’idea sia costruita su una petizione di principio, quindi sia concettualmente fragile e analiticamente inutile. Se il signor Regazzini intende discutere con me, prendendo per diletto le parti di Augé che evidentemente conosce e apprezza più di me, sarò più che felice di discutere anche con lui.
Ciao b.georg, ti posso assicurare che (per quanto mi riguarda) non mi riferivo a te, anche perchè fin qui hai sempre argomentato, non hai mai alzato i toni, sei stato disponibile ad una discussione pacata (quale sempre dovrebbe essere quella su argomenti non capitali, come per dire il contenuto dell’ultimo Ammaniti). Insomma, ho apprezzato i tuoi interventi, davvero.
Quello che condivido con Giuseppe è invece un modo di fare molto diffuso, sui blog e altrove: sparare critiche a destra e a manca, critiche spesso pregiudiziali, spesso assai snob; non mi piace.
Pardon: la critica a un modo di fare, e non il modo di fare in sè (obviously!)
Il booktrailer del libro di Ammaniti è visibile al seguente indirizzo: http://www.book-trailers.eu/come_Dio_comanda.wmv
che libro stupendo!!!!cambia il modo di vedere le cose..ma soprattutto te le fa vedere da diversi punti di vista!!!va letto !
ma è un libro o un binocolo?